

Nel calcio si parla spesso di “tragedie”, “ecatombi”, “catastrofi” e metafore varie per parlare di quello che in fondo è solo un gioco.
A volte, però, noi tifosi siamo veramente toccati nei sentimenti quando queste tragedie si verificano sul serio, come nel caso di Astori, o di Curi, o di Morosini, tanto per rimanere in Italia; tragedie vere, non figurate, dovute alla prematura scomparsa di quei calciatori.
Io sono di Taranto e quando ero piccolo fui molto colpito per la morte di Erasmo Iacovone, scomparso in un incidente d’auto. Ma la storia di Andrea Fortunato fu senza dubbio per me la più straziante.
Andrea nacque a Salerno il 26 luglio 1971, terzo figlio di una famiglia benestante. I genitori accettarono la sua passione per il calcio, a patto che continuasse a studiare, tant’è vero che prese il diploma di ragioniere.
A Sandro Vitali, direttore sportivo del Como e al tecnico della Primavera lariana, Angelo Massola, non sfuggirono le grandi potenzialità di Andrea e lo ingaggiarono, convinti di farne un grande centravanti.
La svolta avvenne quando il tecnico della squadra Allievi, Giorgio Rustignoli, lo trasformò dapprima in centrocampista di sinistra, poi in difensore, sempre sulla fascia mancina.
“Sul campo era come se avesse una prateria, che percorreva con volate lunghe”
avrebbe detto di lui Trapattoni.
Passò in prima squadra nell’89, dove accumulò 16 presenze, ma l’annata culminò in una retrocessione: per l’immediata risalita fu chiamato Eugenio Bersellini, che lo impiegò costantemente (27 presenze, quell’anno di C1), tanto da attirare l’attenzione di alcune squadre di serie A.
Spinelli lo strappò alla concorrenza per 4 miliardi di lire; la prospettiva era di essere il primo cambio del titolare Branco. Ma un litigio con il braccio destro di Bagnoli, Maddè, lo privò di questa possibilità: fu mandato in prestito in B, al Pisa.
“Io non so se Bagnoli non credesse in me – confidò un giorno Andrea – Ma forse ho pagato quella nomea di arrogante, di testa calda, che qualcuno ha costruito su di me. Comunque, devono mangiare sassi prima di scalzarmi”.
Dopo un’ottima stagione al Pisa, tornò al Genoa e agli ordini di mister Giorgi diventò titolare, relegando Branco al ruolo di riserva.
Con Panucci formò una coppia di terzini fra le più forti del campionato: a fine stagione chiuse con 33 presenze e 3 reti, attirando l’attenzione della Juve, che avrebbe voluto comprarli entrambi.
Poco prima della fine della stagione, però, si fece avanti con decisione il Milan per Panucci, che così firmò per il club lombardo. Spinelli era restio a privarsi di entrambi, ma Andrea Fortunato gli strappò la promessa che in caso di salvezza, avrebbe potuto accettare l’offerta della Juve.
“Arriva un giornalista e mi domanda se mi piacerebbe giocare nella Juventus. Ed io cosa dovrei rispondergli, che mi fa schifo? Figuriamoci, io da ragazzino per i colori bianconeri stravedevo, e anche se sono diventato un calciatore professionista, certi amori ti restano nel cuore”.
Per 10 miliardi di lire, voluto fortemente dal Trap, Andrea si trasferì sotto la Mole, l’anno che vide l’arrivo, tra gli altri, di Porrini e Del Piero.

Foto Juventus/LaPresse
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Andrea Fortunato
Nella foto: Andrea Fortunato
L’inizio di stagione fu esaltante: le sgroppate sulla fascia scomodarono paragoni importanti:
“…e non paragonatemi a Cabrini, per favore. Ne ho di strada da fare! Lui è fra quelli cui mi piacerebbe somigliare […] Era un giocatore unico, inimitabile. Questi paragoni sono una sciagura, anche se piacciono tanto ai tifosi. Sperare di emularlo mi sembra quasi impossibile”.
La sua avventura a corte della “Vecchia Signora” cominciò nel migliore dei modi: precampionato ad altissimo livello, debutto in Nazionale a Tallinn, il 22 settembre contro l’Estonia.
“Prometto sempre il massimo dell’impegno per la maglia. Darò sempre tutto me stesso e alla fine uscirò dal campo a testa alta, per non essermi risparmiato”.
Ma in primavera, dopo una serie di prestazioni molto positive, Andrea rallentò: i giornali scrissero
“Andrea è stanco, irriconoscibile in campo, lui che è sempre stato un concentrato esplosivo di energia; fatica a recuperare, è tormentato da una febbriciattola allarmante”.
Iniziarono le contestazioni dei tifosi, che accusarono Andrea di sentirsi arrivato e di fare la bella vita. Ma lui non rispose mai alle provocazioni.
A fine stagione, nel corso di un’amichevole, Andrea chiese il cambio:
“mi sento sfinito”,
disse. Il medico sociale, Riccardo Agricola, capì che c’era qualcosa che non andava e lo mandò all’Ospedale “Molinette” di Torino per delle analisi più approfondite.
L’esito fu terribile: leucemia acuta linfoide, fattore Philadelphia positivo.
Solo una decina di anni prima un precedente che faceva sperare: Gianfranco Leoncini, 289 presenze in bianconero tra il 1958 e il 1970, era guarito dalla leucemia proprio con le cure dell’Ospedale torinese.
Ma per Andrea non era così semplice: i medici non riuscirono a reperire, in tutto il mondo, un donatore compatibile per il trapianto.
Così venne trasferito al policlinico “Silvestrini” di Perugia, dove venne sottoposto a trattamenti di chemioterapia e a parziali trapianti grazie alle cellule della sorella e del padre.
In questo periodo si rafforzarono i legami con Fabrizio Ravanelli, il quale mise a disposizione la sua casa perugina (e la vicinanza della sua famiglia) affinché Fortunato potesse seguire più agevolmente le cure.
Ci fu un miglioramento, dopo la seconda serie di cure: Andrea uscì dall’ospedale, si ricongiunse, addirittura, ai compagni di squadra e li seguì durante la trasferta a Genova, in occasione di Sampdoria-Juventus giocata il 26 febbraio del 1995.
Fu emozionante vederlo sulle tribune dello stadio Marassi, felice come un bambino, a tifare per la sua amata Juventus.
Quando tutti cominciarono a pensare che stesse vincendo la sua battaglia, arrivò una maledetta influenza a spezzare il filo della speranza. Il 25 aprile, alle otto di sera, Andrea ci lasciò.
Al funerale, svoltosi il giorno seguente nella Cattedrale della natia Salerno, presenziarono più di cinquemila persone comprese le società di Juventus e Salernitana, oltre a varie personalità del calcio italiano; durante la funzione, prima Porrini, erede della sua casacca n. 3, e poi il capitano juventino Vialli tennero un commosso discorso di addio, più volte rotto dalle lacrime, allo sfortunato compagno.
“…speriamo che in paradiso ci sia una squadra di calcio, così che tu possa continuare a essere felice correndo dietro a un pallone. Onore a te, fratello Andrea Fortunato.” (Gianluca Vialli, 1995)
Poche settimane dopo la Juventus festeggiò il suo ventitreesimo scudetto; ventitré, come gli anni che Andrea Fortunato da Salerno avrà per sempre.
L’ULTIMA INTERVISTA – MARZO 1995
«Undici mesi di malattia è una cosa lunga, infinita. Ma di tremendo, a parte i periodi di grande crisi fisica, ci sono stati solamente i primissimi momenti; dopo ho combattuto. Invece, all’inizio è stato diverso; il giorno prima stavi fra i sani, il giorno dopo passi fra i quasi incurabili. Non si può descrivere che cosa si prova».
Come si reagisce? «Ti senti perduto e, nello stesso tempo, diventi curioso; è una sensazione strana. Vuoi sapere ogni cosa della tua malattia, ti interroghi sui sintomi, sulle cause, sulle possibili conseguenze. Sai che non ti diranno tutto, provi a indovinare le bugie, ma poi fingi di crederci, ti convinci che è meglio, altrimenti impazzisci. Quando un medico ti spiega quali sono i sintomi della leucemia ti senti sprofondare; e più parla, più tu capisci che tutto corrisponde, che è davvero il tuo caso. In quel momento il male ti prende in ostaggio; ma tu devi impedirgli di ammazzarti».
Come ci si può riuscire? «Con l’aiuto di Dio e dei medici, ma anche con un pensiero fisso: ce la devo fare. Me lo ripetevo ogni giorno e me lo ripeto ancora; neppure per un istante ho pensato che avrei perso la partita. Lo chiamano atteggiamento positivo, pare sia una mezza medicina».
Vuoi fare ancora il calciatore? «Questo è un pensiero che non mi ha mai abbandonato. Mi sono sentito un atleta anche nei giorni più difficili, quando ero più di là che di qua. Ho lottato con spirito sportivo, si può dire che non mi sono mai tolto la maglia di dosso. Rimetterla davvero, ma non solo; ho chiesto, mi sono informato, mi hanno spiegato che tanti atleti sono tornati all’attività dopo la leucemia. Credo, spero di riuscirci».
Come cambia la vita, dopo un’avventura del genere? «Cambia tutto, ti costruisci una scala di valori nuova; dai importanza alle cose che valgono davvero e non te la prendi più per le sciocchezze. E capisci che l’amicizia è la prima cosa; io, per esempio, ho un fratello in più, Fabrizio Ravanelli. È stato incredibile, mi ha messo a disposizione una parte della sua vita, non solo la sua famiglia e la sua casa di Perugia; non si può descrivere con le parole. Il giorno più bello, in questi mesi di malattia, l’ho vissuto quando lui ha segnato cinque goal al CSKA, in Coppa Uefa; quella sera ho capito davvero che cosa è la felicità; ed è stato altrettanto bello, vedere Fabrizio esordire in Nazionale, proprio a Salerno, la mia città».
Ti sono servite le vittorie bianconere? «Non solo quelle, ma la costante presenza dei compagni e della società; un’altra famiglia, davvero. Se sono vivo lo devo anche a loro, al loro affetto».
C’è un momento, di questi mesi, che ricordi con particolare intensità? «L’uscita dall’ospedale a Perugia, dopo il secondo trapianto; non mi sembrava vero, vedevo diverse tutte le cose, mi parevano straordinarie anche le più insignificanti. Non immaginavo quanto potesse essere meravigliosa anche una semplice passeggiata».
Cosa insegna la malattia? «Che nella vita c’è di peggio di uno stiramento che ti tiene fuori dal campo per due settimane. Che ogni giorno muoiono bambini leucemici senza che nessuno lo sappia e senza che si possa fare nulla. Che in Italia abbiamo i migliori medici del mondo; a Perugia vengono a imparare le nostre tecniche dall’America, da Israele, dalla Francia. Però, le strutture sono quelle che sono, mancano gli spazi, c’è gente in coda da mesi per un trapianto. Bisogna donare il midollo, senza paura, perché questo salva la vita agli altri e dà senso alla tua».
Il tuo sogno? «La leucemia mi ha insegnato a non fare progetti a lunga scadenza e neppure a media; non per paura, ma per realismo. La prima volta che programmai il ritorno a Torino, mi alzai la mattina con la febbre; nulla di grave, per fortuna, ma ci rimasi male. Vivere alla giornata non è una sconfitta, semmai un modo per apprezzare davvero la vita in ogni attimo, in ogni sfumatura. È quello che farò».
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