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Bel gioco e giocare bene

Se volessimo fare gli sboroni potremmo dire che noi di JuTalk dettiamo l’agenda: dopo che nell’ultima puntata si è a lungo discusso di bel gioco, di cosa significhi giocare bene e di come alcuni tifosi riescano a lamentarsi del gioco della Juventus nonostante i risultati, è uscita per LaPresse un’intervista ad Arrigo Sacchi nella quale ritorna forse per la seicentesima volta sulla solita solfa che ripropone periodicamente sulla Gazzetta oppure su Mediaset Premium. Giocare bene, lo spartito, l’armonia, gli allenatori che hanno idee e quelli che non ne hanno, divertire, convincere, l’italianità etc. Il passaggio da titolo era troppo ghiotto per non essere rilanciato dai vari siti, tanto è grossa la bestialità: “La Juve vince in Italia? Va bene, anche il Rosenborg vince sempre lo scudetto in Norvegia. Ma per far bene in Europa serve altro”.

Sarebbe troppo facile ricordare la carriera da allenatore di Arrigo Sacchi: il Parma come rampa di lancio, tre anni strepitosi con uno scudetto e due Coppe dei Campioni alla guida di un Milan imbottito di fuoriclasse e poi… Già, e poi? E poi un Mondiale dove il tanto odiato “singolo” (Roberto Baggio) lo tira giù dall’aereo a pochi minuti da un’eliminazione certa, dopo essersi qualificato agli ottavi per il rotto della cuffia (ripescato come miglior terza). Finché non si accese la luce di Baggio, tutta la filosofia del gruppo e delle idee innovative stava bellamente andando a farsi fottere. Come ci andò puntualmente due anni dopo agli europei in Inghilterra: eliminazione nel girone grazie alla supponenza con la quale cambiò totalmente formazione nella seconda partita, perché le idee e il presunto gioco venivano prima dei giocatori. Destino che non cambiò nella sua seconda fase al Milan, quando i campionissimi del primo ciclo avevano lasciato spazio a onesti mestieranti tipo Blomqvist e Dugarry (eliminazione in Champions proprio da parte del Rosenborg, pensa un po’ che buffo, e umiliante 6-1 a San Siro sotto i colpi della Juve di Lippi). Stessa sorte nelle due esperienze madrilene su entrambe le sponde del Manzanarre, prima di lasciare definitivamente la panchina perché “troppo stressante”. Sembrerebbe quasi che le sue fortune le abbiano fatte più i Van Basten, Rijkaard, Baresi, Maldini, Donadoni e Gullit piuttosto che la prosopopea del 4-4-2, del pressing, del vincere e convincere, dello spartito e del calcio totale con la quale ci ammorba da anni in qualità di commentatore. Ma tant’è, per tutti è il grande maestro che ha rivoluzionato il modo di fare calcio in Italia, chi sono io per poter nutrire qualche dubbio fatti alla mano?

Sarebbe ancora più facile far notare come tre degli allenatori che lui definisce “fenomeni” (Spalletti, Sousa e Sarri), allenatori coi quali si può fare bene in Europa e che hanno evidentemente quella mentalità che alla Juve e ad Allegri mancano (e che invero sono comunque dei bravi allenatori), hanno appena collezionato tre eliminazioni dalle competizioni europee col seguente score: 2 pareggi, 4 sconfitte, 2 goal fatti, 10 goal subiti. Avversari un Real Madrid non all’altezza della sua fama e con in panchina un allenatore improvvisato, il Villarreal quarto nella Liga e il Tottenham che in Premier League insegue il modesto Leicester di Ranieri a distanza di 5 punti. Di contro, l’allenatore così così, un po’ bravo (Sacchi qualcosa deve concedere di fronte ai risultati) ma mica poi tanto (“gli interessa solo vincere”, ohibò che volgarità), contro una delle due squadre più forti d’Europa si andrà a giocare la qualificazione settimana prossima dopo aver retto bene il colpo in casa di fronte alla differenza di qualità tra le due formazioni. Ed è lo stesso allenatore che, alla guida della squadra che in Europa è come il Rosenborg, l’anno scorso si è dovuto arrendere solo a 20 minuti dal termine della finale di fronte alla squadra che ha segnato un’epoca e che schiera davanti tre marziani che giocano come pare a loro tanto sono forti (altro che spartiti e menate varie).

La realtà è che si continua a fare tanta filosofia, se mi consentite tanta fuffa, intorno ai concetti di “bel gioco” e di “giocare bene”. Sacchi e il sacchismo, vogliono convincerci che nel calcio la cosa importante sia catturare l’occhio e che “una vittoria giocando male è una non vittoria”. Balle. Lo vada a spiegare ai tifosi del Chelsea che hanno vinto la loro unica Champions grazie al gioco indubbiamente “brutto” di Di Matteo. Vengono esaltati allenatori che non ottengono risultati ma che vengono presentati all’opinione pubblica come produttori di “bel gioco”, addirittura viene spacciato per maestro un allenatore meno che mediocre come Zeman. Tutto ciò è ridicolo. “Giocare bene” è forse il concetto che più viene frainteso nel calcio moderno. Giocare bene non significa fare “bel gioco”, qualsiasi cosa voglia dire quest’ultimo concetto (fare belle azioni? Andare tutti avanti alla garibaldina? Partite che finiscono 4-4 sono belle partite?). Giocare bene significa innanzitutto avere un gioco produttivo, che ti consente di vincere le partite e di alzare trofei. Non esiste al mondo che una squadra che domina il calcio italiano da cinque anni a questa parte non giochi bene, o giochi meno bene rispetto a quelle che arrivano costantemente dietro. Checché ne pensino i sacchiani e anche diversi tifosi della Juventus che hanno il coraggio di storcere il naso di fronte alla Juve di Allegri, la Juventus è una squadra che GIOCA BENE. Perché sa stare in campo, perché interpreta meglio di tutte le altre le situazioni di gioco nei vari momenti della partita, perché ha il migliore equilibrio tra fase difensiva e fase offensiva e perché la sua maniera di giocare produce risultati. Gioca bene perché ha degli ottimi giocatori (senza quelli non si va da nessuna parte, piaccia o meno ai fanatici dello spartito) e un ottimo allenatore, perché sa giocare partite diverse a seconda del tipo di avversario che ha davanti (eh sì cari miei, se non lo sapete nel calcio esistono anche gli avversari) e perché sa che nel calcio non ci sono dei giudici con le palette che danno i voti alla prestazione come a Ballando con le stelle (cioè ci sono, ma contano zero). Gioca bene perché… beh, chiedetelo a Guardiola perché gioca bene. Perché in giro per l’Europa, gli allenatori delle grandi squadre quando viene estratto il nome della Juventus storcono il naso: è un avversario che tutti gradirebbero evitare.

Non ho mai visto squadre che vincono così a lungo come fa la Juventus e che lo fanno senza giocare bene. Vedo giornalisti esaltare periodicamente questa squadra o quell’altra: tutte giocano, a turno, meglio della Juventus. La Juventus si limita a vincere, e lo fa perché “è solida, è cinica, è quadrata, difende bene, è fisica, corre”. Insomma, definiscono varie sfaccettature del giocar bene, ma non arrivano alla conclusione finale. Perché si continua a confondere, per ignoranza, il concetto etereo di “bel gioco” con il giocar bene. La Juventus della stagione 2011/12 aveva un gioco che catturava l’occhio: dalla stagione successiva ha continuato a giocar bene (e a vincere, ovviamente), ma senza raggiungere i livelli estetici di quell’annata. “Il bel gioco dura poco”, verrebbe da dire mutuando un vecchio adagio. Eh sì, perché andando avanti, dovendo gestire sempre più impegni (quell’anno non c’erano le coppe), giocoforza si finisce per privilegiare altri aspetti: si continua a giocare bene (e infatti si vince) ma senza quei momenti di “bel gioco” (o quanto meno riducendoli di molto) mostrati in precedenza. Tutto ciò è fisiologico, ma molti addetti ai lavori e alcuni tifosi si ostinano a non volerlo capire. Sacchi e le sue teorie (e il modo in cui vengono propalate da chi il calcio lo racconta) hanno obnubilato generazioni di tifosi facendo loro pensare che si guardino le partite di calcio come si guarda il circo. Il calcio non è una competizione estetica e soprattutto è un fenomeno complesso dove contano tanto le grandi giocate che catturano l’occhio quanto la compattezza, il cinismo, la capacità di sapersi adattare a situazioni diverse, anche la furbizia talvolta. Il giusto mix di queste cose crea il giocar bene, che non è un paradigma unico: diverse squadre sanno giocar bene, ognuna alla propria maniera. La squadra che dispone del “giocar bene” migliore, alla fine, è quella che vince. Alle altre resta solo della gran filosofia.

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