

Tutte le grandi squadre hanno i cosiddetti “cicli”, cioè periodi in cui vanno a vincere trofei in modo abbastanza costante. Penso al Real degli anni tra il 1955 e il 1966 o all’Ajax del periodo ’68-’73 oppure al Liverpool degli anni ‘75-’84. Ma anche al Milan ’87-’94 o al Barcellona del recente decennio 2005-2015.
Esattamente come un essere vivente, una squadra di calcio ha un suo ciclo vitale. La maggior parte dei “top club” è di costituzione antica, quindi non considero la cosiddetta “nascita”. Ma tutti hanno (avuto) una “crescita”, una “maturità”, una “vecchiaia” e qualche volta una “rinascita”.
I tempi delle fasi variano in base alla grandezza, anche economica, di un club. Le squadre più ricche avranno delle rinascite più brevi, o avranno delle crescite più veloci e una fase di maturità più lunga.
Ma nessun club può evitare tutte queste fasi. È una legge che governa ogni mondo, incluso quello del calcio.
Anche la Juve ha avuto i suoi cicli, quasi in ogni decennio. Negli anni ’30 del ventesimo secolo, i famosi 5 scudetti consecutivi; negli anni ’50, il periodo del trio Boniperti-Charles-Sivori; nel decennio 1976-86, con la guida di Giovanni Trapattoni; poi la Juve di Lippi, nel periodo ’94-’99; infine la attuale, con 7 scudetti consecutivi (più altre coppe qua e là).
Noi pensiamo che questo ciclo non finirà mai, e in effetti, almeno in Italia, si fa fatica ad immaginarne una fine. Ma un giorno finirà. Per dare vita a un nuovo ciclo, chiaramente.
Tornando alle squadre del passato, per chiare ragioni anagrafiche io sono molto legato alla Juve di Agnelli (l’Avvocato), Boniperti e Trapattoni. Ma non solo per una questione di età. Erano gli anni in cui il Presidente multava i giocatori che avevano un comportamento non da Juve, come rilasciare dichiarazioni o avere dei comportamenti sopra le righe. Il cosiddetto “Stile Juve”.
Quegli anni furono anni ricchi di trofei, in Italia e all’estero. Oltretutto, l’8 dicembre 1985, a Tokyo, battendo ai calci di rigore i campioni sudamericani dell’Argentinos Juniors, la Juve divenne il primo e l’unico club al mondo a vincere tutte le competizioni ufficiali a livello internazionale. Altro che triplette o doppiette.

Figura 1- La Targa UEFA
Di quella partita non fece parte, perché appena ceduto, un giocatore che, pur essendo stato relativamente poco alla Juve, le ha dato molto: Beniamino Vignola.
“Vignolino”, come lo chiamava Platini, nativo di Verona, mosse i primi passi nelle giovanili della sua città, per esordire nel calcio che conta già a 19 anni. Nonostante il fisico minuto e poco atletico, aveva un piede che lasciava stupiti gli spettatori e, il più delle volte, anche gli avversari.
L’anno seguente, in B, diventò titolare nel Verona alla guida di mister Veneranda. Squadra giovane, che faceva un bel calcio, ma che a fine anno raccolse meno di quanto sperato, rimanendo nella serie cadetta.
Ma Beniamino era già pronto per il salto e quando arrivò l’offerta dell’Avellino, ci andò senza pensarci. Le squadre provinciali degli anni ’80, in particolare Avellino e Ascoli, con i padri padroni Sibilia e Rozzi (altro che Preziosi e Zamparini…), furono apprezzato serbatoio per le grandi squadre di quegli anni.
Basti pensare che la Juve prese da quell’Avellino Tacconi, Favero e appunto Vignola. In tre stagioni all’Avellino infatti Beniamino si era segnalato come uno dei giovani italiani di maggior talento (6 presenze e 3 gol con l’Italia Under 21), mettendo a segno 16 gol in 88 gare.
Arrivò a Torino come vice Platini, tant’è vero che lui stesso raccontò:
“Io giocavo poco, quasi sempre per sostituire Platini, però poi ero diventato titolare al posto di Penzo. Eravamo una squadra strana, fortissima: Paolo Rossi unica punta, i campioni del mondo di Madrid con Tacconi in porta perché Zoff aveva smesso e pure Bettega, Bonini in mediana, i due stranieri più forti del pianeta cioè Platini e Boniek, e il sottoscritto. Giocavo regista dietro Michel e ogni tanto lui si scambiava di posto con me.”

Figura 2 – Beniamino Vignola in bianconero
È scudetto al primo colpo, vinto anche grazie ad alcune sue prodezze, come il rigore decisivo contro la Fiorentina e una fantastica doppietta contro l’Udinese partendo dalla panchina, proprio nel momento clou della stagione.
Sulla partita con i viola Beniamino raccontò:
“Ricordo il rigore alla Fiorentina al 90′, quella volta che Platini aveva la febbre, lui che accidenti non si ammalava mai. Nel cassetto conservo la maglia di quel giorno, bianconera e col 10 perché allora i numeri non erano personali. Bellissima, di lana con lo scudetto e le stelle gialle cucite a mano in rilievo, ogni tanto vado a guardarmela. Quando pioveva, pesavamo due chili in più.
Quell’anno però non ci fu solo lo scudetto: si aggiunse la Coppa delle Coppe, disputata in virtù della Coppa Italia conquistata l’anno prima. Contro il Porto, a Basilea, Vignola titolare, con la maglia numero 7, e protagonista. Al 13′ del primo tempo segnò, e nel secondo tempo, dopo il pareggio del Porto realizzato da António Sousa (rimbalzo beffardo davanti a Tacconi con il portiere bianconero trafitto), tirò fuori dal cilindro un lancio lungo per Zibì.
“A volte rivedo il filmato, sento la voce di Nando Martellini che dice il mio nome e non ci credo: mi trovavo lì. Come nell’azione del primo gol: lancio di Platini, io anticipo il movimento del portiere e segno nell’angolino. L’assist a Boniek arrivò dopo una corsa cominciata a centrocampo, fine della partita e Scirea che alza il trofeo.”
L’anno seguente, con lo scudetto a Verona, la Juve vinse la Supercoppa Europea (la finale col pallone rosso, per l’eccezionale nevicata che ci fu a Torino), ma Beniamino non giocò, mentre era entrato a due minuti dalla fine nella tragica finale di Coppa dei Campioni vinta dalla Juventus sempre contro il Liverpool allo stadio Heysel il 29 maggio ‘85.
Alla fine della stagione Vignola tornò a Verona. Il suo acquisto, avvenuto a pochi giorni dalla fine del mercato per tacitare i tifosi irrequieti dopo le partenze di Garella, Fanna e Marangon, si rivelò inutile per gli scaligeri, che lo impiegarono poco.
L’anno dopo tornò alla Juve, ma l’unione delle due parabole discendenti, quella della squadra, ormai a fine ciclo, e quella personale di Beniamino, non fece che accelerare la sua uscita dal calcio che conta.
Dopo due stagioni da comprimario alla Juve, passò nell’autunno dell’88 all’Empoli, in Serie B, per poi chiudere la carriera al Mantova, in C2, a soli 33 anni.
“Qualcuno mi paragonò a Rivera, esagerando. Forse per il fisico, per qualche mio movimento però non scherziamo. Ho avuto la fortuna di vedere quei fuoriclasse da vicino, Platini specialmente che aveva un dono, trasformava le cose più difficili in facilissime. I campioni giocavano a memoria, io cercavo di tenere il passo, avevo istinto e forse leggerezza. Sapevo che non sarebbe durata in eterno, dalla Juve comunque ho avuto più di quello che speravo e anche dal mio mestiere, penso all’Avellino, al Verona, a quella volta che affrontai proprio la Juve in Coppa dei Campioni a porte chiuse, all’errore dell’arbitro, anche allora succedeva ma non si faceva tutto questo cinema, e anche allora la Juve era la più forte.”
Dopo aver lasciato il mondo del calcio iniziò la carriera di imprenditore, gestendo una ditta specializzata nel commercio di vetri per auto e veicoli commerciali. Sempre con stile “Juve”.
“Mentalità vincente ma anche educazione. Una volta c’erano regole severe, un presidente come Boniperti voleva gente che sapesse giocare a calcio ma che conoscesse anche i buoni princìpi. La Juve non è stata solo vittorie e scudetti, certi successi partono da molto lontano. Nascono fuori dal campo, com’era all’epoca anche per società come il Verona”.
Nell’era dei social, dei capitani sfasciati, delle heat map, delle statistiche, del (della?) VAR, quello che forse più manca sono proprio i buoni princìpi e le persone come Beniamino Vignola da Verona.