“I’ve seen the future brother: it is murder”. Più allegri (minuscola) com’è noto della buonanima, abbiamo deciso di limitarci a “dare le dimissioni dall’attualità”, come disse Mircea Eliade (non cercatelo su transfermarket, non giocava né con Hagi né con Boloni, colui che impallinò quel vecchio cecato, diciamolo, di Zoff). Prima, però, qualche residua curiosità, alla maniera di Aldo Fabrizi:
ci avete fatto caso che per mesi Maurizio Sarri, deludendo gli adepti della sua setta, ha fatto discorsi di un pragmatismo quasi cinico, pronunciando espressioni tabù come “equilibrio”, “caratteristiche dei giocatori”, “adattamento”?
Ci avete fatto caso che per settimane, mentre intorno l’ex-claque che di colpo gli rompeva le palle rinfacciandogli “risultati senza gioco” (?) lui resisteva alle suggestioni tridentine adducendone l’insostenibilità?
Ci avete fatto caso che di colpo il tridente è diventato un dogma come la Trinità, dopo le difese a spada tratta (e contro l’evidenza) di calciatori, come Bernardeschi, di colpo evaporati come quelle dichiarazioni?
Ci avete fatto caso che dopo le prime due cenciate, dolorose sì ma in fondo non terremoti, e subite peraltro da un’ottima squadra, è partita una singolare litania sul “bisogno di tempo”, giustissimo ma dilatatosi improvvisamente a dimensioni pluriennali? E che a tale bisogno si è associato un invito/appello a includere, in questa fiduciosa attesa, l’estraniarsi dalla vittoria, “purtroppo” abitudine radicata della casa? (Tranquilli, qui niente ermeneutica di Martusciello, che ci ricorda tanto gli inserti sulla “cultura del cavallo” o la “fenomenologia del cetriolo”. Quest’ultima peraltro potrebbe tornare utile). Certo c’è ancora qualche flebile protesta, come quella del trotzkista Pjanic, che dice che pigliamo troppi gol e troverà perciò presto uno zio di Christian De Sica (lo sapevate?) a picconarlo.
Ci avete fatto caso che queste dichiarazioni disallineate da quelle di tre mesi e mezzo sono state affiancate, con elvetica sincronia, da analoghi e consentanei interventi di alcune voci gobbe, dai più attenti auscultatori degli “spifferi da Vinovo”, dai seppellitori del “calcio dei furbi”, dagli insider/embedded di Torino, dagli omonimi di vecchi bomber?
Ci avete fatto caso che sembra una gigantesca, e orchestrata, operazione di maniavantismo, fra l’altro prematura, visto che lo scudetto rimane ampiamente alla portata così come l’ottavo di CL dopo una qualificazione in scioltezza? E che non sembrano, almeno quelle dell’allenatore, così spontanee? Sarà una linea societaria? Di tutta la società? Perché qualcuno tace. E chi tace acconsente? (No, diceva Francesco Nuti, chi tace sta zitto)
Registriamo il fenomeno alquanto incuriositi, prima di tornare nel nostro ospizio gozzaniano, a lucidare le piccole cose di pessimo gusto che, abbiamo scoperto, fanno tanto ribrezzo a tanti di noi: la nostra indecorosa collezione di scudettini e scudettacci vinti “col difensivismo”; la nostra polverosa infilata di coppe internazionali (i primi al mondo a vincerle tutte) perlopiù dovuta al biechissimo Trapattoni, infamone che ha disputato 5 finali europee e ne ha vinte solamente 4; il busto marmoreo di San Marcello da Viareggio che ne ha disputate 5 anche lui e perse 4, ma – perdio! con che mentalità; gli orripilanti 11 titoli degli ultimi 5 anni buttati; la nostra raccolta di figurine nauseabonde e retoriche, su cui è ben tempo di dire la verità: Furino “calciava di caviglia”, come disse un allenatore innovativo che si estraniò a tal punto dai risultati da essere cacciato a pedate dopo 6 turni; Benetti spaccava gambe; Rossi segnava solo di rimpallo; Platini? Un Matteoli che segnava; Boniperti? Un vecchio bilioso e reazionario, e anche un po’ ricchione come gli disse, appioppandogli il noto soprannome, Benito Lorenzi, un Cassano degli anni ’50 che oggi avrebbe schiere di seguaci. Calciopoli? Anche insigni storiografi ci fanno capire, fra le righe, che in fondo ce la meritammo, giocando così male, e poi senza non avremmo scoperto Marchisio! E via rinnegando, rottamando, rigattando (da rigattiere) .
In questo scenario ci aggiriamo straniti come Gassmann e Villaggio nel film cui abbiamo rubato il titolo; pensando della rivoluzione quello che pensa Juan Miranda (c’è su youtube) ci mettiamo il plaid sulle ginocchia. Portando gli occhiali, pensiamo con un brividino alla Rivoluzione Culturale del grande ct Mao: non fu forse lui a dire “non si può fare una rivoluzione senza rompere i coglioni”? O forse non disse così, purtroppo. Vabbè. Sticazzi
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