Quando scrivi sulla persona che da sempre hai ammirato più di tutti tra quelli che hanno corso su quel manto verde, vera essenza per molti di noi, che ha saputo regalarti immense emozioni, in quel tempo in cui sotto al suo pizzetto stampato sul mento era presente una maglia bianca e nera, e non solo, è difficile trovare le parole per far capire cosa si sente, cosa si prova dentro a pensare, immaginare, guardare un suo goal, un suo gesto atletico, un suo colpo di testa. David Trezeguet l’aveva promesso di tornare, per salutare tutti noi, che l’abbiamo sempre sostenuto, nella nostra, nella sua casa, lo Juventus Stadium, ex-Delle Alpi, arena che ha ospitato tantissimi suoi indimenticabili goal.
E quanti ne ha fatti di goal? Tanti, troppi. 171. D’altronde David Trezeguet non era un attaccante, era l’attaccante. Era il numero 9 del calcio tramutato in persona, solo che per non darlo a vedere ha indossato un altro numero, il 17. David non si limitava a mettere la palla in rete, lui ordinava alla palla di andare in rete, non c’era niente che in quell’istante potesse impedirgli di realizzare ciò che aveva già in anticipo previsto nella sua testolina luccicante: il Re ordinava e il pallone fedelmente eseguiva. Era questo dopotutto che rendeva speciale Trezegol, l’abilità nel fare la cosa giusta al momento giusto con tempi di reazione bassissimi. Perché lui in fondo aveva già elaborato tutto in anticipo: sapeva dove sarebbe andato il pallone e dove l’avrebbe fatto finire una volta a contatto con il suo corpo. Ma non solo, anche il pallone era a conoscenza di dove sarebbe andato David e dove il contatto con il suo corpo l’avrebbe fatto finire; non che fosse così difficile da intuire, la meta era sempre una e una sola, la rete!
Sì, la rete, il goal, ciò su cui si basa il calcio. Perché bisogna parlare chiaramente: un bambino che interesse può avere se fai una bella diagonale difensiva, se fai un’entrata coi fiocchi, se anticipi l’avversario sul tempo, se tatticamente esegui alla perfezione gli ordini dell’allenatore, se salti l’uomo, se pennelli cross su cross, se fai l’ultimo delizioso passaggio… Nulla, o quasi. A un bambino interessa solo ed esclusivamente che il pallone varchi la linea della porta e si tramuti in goal, e interessa soprattutto chi è stato l’artefice di quel gesto che lo ha fatto tanto gioire. E chi meglio di David Trezeguet esprime questo concetto così semplice ed elementare che in fin dei conti è l’essenza del calcio? Esempio? Alla prima stagione di Conte o alla seconda (quest’anno per fortuna e bravura molto di meno) in quanti di voi non hanno pensato almeno una volta “Ah, se avessimo un Trezeguet!”?
Dunque mi capirete se dico che era proprio questo che catturava l’ignoranza di un altro David, un bambino che si apprestava a far del calcio la sua passione, non sapendo che poi tale passione si sarebbe tramutata in qualcosa di più, di molto di più; quel bambino che oggi scrive queste parole provando a raccontare la sensazione che suscita in lui solo il sentirlo quel nome, il suo stesso nome: David! Sì, perché, diciamocela tutta, quanti di voi hanno avuto la fortuna di condividere il proprio nome con il proprio campione? Sicuramente ora è una sottigliezza, l’età più adulta fa smettere di sognare e non fa dare importanza a cose come questa, di certo non mi aspetto che qualcuno di voi lo capisca, ma da ragazzini, chiamarsi come il calciatore più idolatrato, come colui che desideri essere ogni volta che calci il pallone, vi assicuro che non è cosa da poco. Anzi, significa moltissimo, significa tutto.
Come quando molto tempo fa, un giorno qualunque, agli inizi, trovai a sorpresa una maglia della Juventus sopra al mio letto, di quelle però vuote dietro, con lo spazio per inserire nome e numero, ma, appunto, senza nome e numero; la classica maglia che a molti ragazzini poteva sembrare triste solo perché priva della parte fondamentale. Priva del cognome e priva di quel numero che rappresentasse il proprio idolo, magari il 10 di Del Piero. Io però non ero deluso nel vedere quel vuoto, non me ne fregava nulla, io su quella maglia vedevo il 17 di Trezeguet, per me c’era il 17 di Trezeguet e non avevo bisogno di vederlo scritto il 17 di Trezeguet, tanto qualsiasi maglia della mia Juventus era in ogni caso di Re David, mi faceva essere lui e niente nella mia testa poteva farmela pensare diversamente.
Come anche quando cominciai a fare le prime partite “impegnative” della mia vita. Inutile dire che i miei scarpini tacchettati dovevano essere come i suoi (e lo erano!), che lo stile dei movimenti doveva essere come il suo, che la mia esultanza doveva essere come la sua, che il mio pizzetto doveva essere com… No, quello ancora non lo avevo, eppure era l’unica cosa che mi mancava e forse sarei stato un piccolo Trezeguet per davvero.
D’altronde il calcio è questo, signori. La purezza e l’innocenza di tali gesta, almeno per chi vi scrive e il bambino che ancora si ritrova dentro a sé. Perché quando penso a Trezeguet, a David, al Re, alla Francia, al Cobra, al 17, al pizzetto, alla testa rasata, ai goal nella loro forma più pura, vengono nella mia mente tutti gli istanti passati a imitarlo, a provare a essere come lui, alla gioa nel vedere il pallone entrare in porta nell’importantissima partita fatta con gli amichetti sotto casa e pensare “Se continuo così, diventerò come te!”.
Merci, David!