

Nel febbraio 2007 usciva il report Deloitte che fotografava la stagione sportiva 2005/06, l’ultima prima dello tsunami Calciopoli, che devastò la Serie A e la Juventus in particolare. Allora nella Top 20 c’erano 2 squadre spagnole, 4 italiane, 8 inglesi e 3 tedesche; oggi le spagnole sono diventate 3, il resto uguale. 15 delle 20 prime squadre di allora ci sono anche oggi.
Non deve ingannare il fatto che il numero di squadre delle varie leghe nella Top 20 sia rimasto costante: tutte le italiane infatti hanno perso parecchie posizioni in classifica. La stessa Juventus, pur passando da € 251,2 a € 341,1 mln di fatturato, ha perso 7 posizioni, scendendo dal 3° posto di partenza al 10°.
Nel 2007 le spagnole occupavano il 1° e 2° posto; le italiane il 3°, 5°, 7° e 12°; le inglesi il 4°, 6°, 9°, 10°, 13°, 15°, 17° e 19°; le tedesche 8°, 14° e 16°. A distanza di 10 anni le due spagnole mantengono di fatto la loro posizione d’eccellenza (2° e 3°), le tedesche migliorano tutte la loro posizione (4°, 11° e 14°), così come le inglesi (1°, 5°, 7°, 8°, 9°, 12°, 18°, 20°): la vera debacle è tutta italiana (10°, 15°, 16° e 19°).
Questo al 30 giugno 2016, ma oggi è pure peggio. La distanza tra i fatturati di Roma (15°, € 218,2 mln), Milan (16°, € 214,7 mln) e Inter (19°, € 179,2 mln) e le squadre che inseguono appena fuori dalla Top 20 (Newcastle United 21° € 168,2 mln; Southampton 22° € 163,3 mln; Everton 23° € 162,5 mln) è veramente minima e potrebbe essere già stata colmata grazie al nuovo contratto relativo ai diritti TV inglesi: solo un’importante svalutazione del cambio GBP/EUR potrebbe consentire alle 3 squadre italiane di restare aggrappate agli ultimi posti.
Questo e la partecipazione alla fase a gironi della Champions League. Considerate infatti che le tre squadre inglesi sopra citate, grazie ai nuovi contratti televisivi, dovrebbero superare agevolmente quota 200 milioni di euro di ricavi annui (fatto salvo il discorso sul cambio GBP/EUR , come dicevo): cifra che la Roma fatica a raggiungere anche quando partecipa alla Champions League, che il Napoli non raggiunge neanche quando partecipa alla Champions League, che l’Inter raggiunge solo se partecipa alla Champions League e che rappresenta il limite superiore dei ricavi del Milan in assenza della Champions League.
Dal momento che Inter e Milan hanno fallito la qualificazione alla ricca competizione UEFA del 2017/2018 e che le altre italiane non raggiungono certi livelli di fatturato neanche partecipandovi, è possibile che il report Deloitte del febbraio 2019 vedrà una sola squadra italiana tra le prime 20: la Juventus. Questo renderebbe lampante una situazione che è già nei fatti: l’uscita (definitiva?) del calcio italiano dal giro che conta.
Il fattore che potrebbe cambiare la situazione è appunto la riforma dei criteri di qualificazione alla Champions League, che entrerà in vigore dalla stagione 2018/19. Qualora le due milanesi riuscissero a qualificarsi raggiungendo uno dei primi 4 posti della Serie A 2017/18, nel Report Deloitte 2020 le squadre italiane potrebbero tornare ad essere 3. Questo rappresenterebbe una vigorosa boccata d’ossigeno per la nostra disastrata Lega (sia fatto un monumento a chi, in seno all’ECA, ha spinto per questa riforma ndr), altrimenti morente.
Non dico “morente” a caso. La fotografia della situazione attuale infatti vede da una parte 3 leghe, ciascuna con le proprie peculiarità, che hanno continuato e continuano tuttora il loro percorso di crescita, sfruttando l’espansione del “business calcio” a livello mondiale, mentre dall’altra parte la Serie A ristagna, del tutto incapace di sfruttare perfino l’inerzia mondiale del movimento calcistico.
Se torniamo a guardare la Top 20 della classifica Deloitte possiamo notare che dalle prime posizioni sono state espulse il Newcastle, l’Amburgo, il Lione, i Rangers ed il Benfica: insomma, squadre che intuitivamente sappiamo essere fuori dal grande giro. Tra le espulse ci sono squadre che hanno vinto molto in questi 10 anni (Rangers e Benfica), mentre resistono squadre (le inglesi e lo Schalke, ad esempio) che non hanno vinto assolutamente nulla, né in patria né fuori. E questo deve far riflettere.
Da tempo ho maturato la convinzione che le vittorie sportive non siano il fattore decisivo per far crescere il fatturato dei club. Tre esempi per iniziare: l’Inter, il Siviglia e il Liverpool.
L’inter in questo decennio ha vissuto la sua “golden age” ed ha vinto come mai prima nella sua storia, eppure è passata dal 7° al 19° posto e nonostante l’incremento dei diritti tv domestici, il suo fatturato è sceso da € 206,6 mln a € 179,2.
Il Siviglia dal canto suo non riesce a guadagnarsi un posto nella Top 20 nemmeno vincendo per tre volte di seguito l’Europa League.
Dall’altra parte il Liverpool, che in questi 10 anni ha vinto solo una Community Shield e una League Cup, ha visto il suo fatturato passare da € 176,0 mln a € 403,8. E questa situazione è comune a tante altre realtà, soprattutto inglesi.
Se non basta, vi propongo un altro confronto, stavolta tra realtà omogenee: Real Madrid e Barcellona. Nella stagione 2000/01 il Real Madrid fatturava € 138 mln, il Barcellona € 110. Nelle 15 stagioni seguenti il Real Madrid ha vinto 3 Champions e 4 scudetti; il Barcellona 4 Champions e 7 scudetti. Entrambe le squadre hanno chiuso la stagione 2015/16 con un fatturato pari a € 620 mln. Entrambe le squadre sono cresciute linearmente e costantemente tutti gli anni (Real +10,54% medio annuo composto; Barca +12,22% medio annuo composto), sia quando vincevano sia quando perdevano. Aver vinto 1 Champions in più e il doppio degli scudetti non ha comunque permesso al Barcellona di effettuare lo strappo decisivo nei confronti dei rivali del Real Madrid, visto che la crescita del fatturato è stata del tutto simile.
Ancora più eclatante il caso del Manchester United. Nello stesso periodo considerato il fatturato del club inglese è passato da € 217 a € 689 mln (+8% medio annuo composto), ma il percorso è stato completamente diverso da quello delle due spagnole: dalla stagione 2000/01 fino alla stagione 2012/13 (12 anni), mentre i Reds vincevano 6 scudetti, 1 Champions e arrivavano in finale altre 2 volte, il fatturato cresceva solo di +€ 207 mln (+95%), arrivando a quota € 424 mln (nello stesso periodo Real +276% e +€ 381 mln; Barca +339% e +€ 373 mln); nelle 4 stagioni seguenti, quando praticamente non ha vinto nulla e per ben due volte non ha neanche partecipato alla ricca Champions League, il fatturato ha sfondato quota € 700 mln (fatturato stimato per la stagione 2016/17, al netto del cambio €/£) e il tasso di crescita medio annuo è passato da un misero +5,75% ad un eccezionale +14%.
Di Rangers e Benfica ho già detto: dominanti in patria ma sono 2 delle 5 espulse dalla classifica del fatturato.
Come dicevo sopra, tutti danno per assodato che l’incremento del fatturato sia conseguenza delle vittorie sportive: questa correlazione che, ad onor del vero, non mi risulta nessuno abbia mai approfondito attraverso una seria indagine, non trova però alcuna evidenza nei fatti ed anzi trova molte conferme di segno opposto.
Quindi, perché le altre leghe crescono mentre la Serie A no? Quali sono i driver di crescita del fatturato dei singoli club e di conseguenza delle leghe nel loro complesso?
Mentre in Italia continuiamo a dibattere sullo stadio di proprietà, all’estero nel frattempo questo asset ha smesso di rappresentare un vantaggio competitivo e di essere un driver primario della crescita dei ricavi di un club. Questo perché la possibilità di incrementare gli introiti derivanti da questo asset è legata a fattori rigidi: l’area urbana in cui si colloca la struttura (bacino d’utenza locale), i mezzi di trasporto che lo collegano alle zone limitrofe (bacino d’utenza allargato), il reddito pro capite, le abitudini di consumo, la propensione a spendere in beni voluttuari. Come dicevo poc’anzi, sono tutti fattori rigidi, difficilmente (e lentamente) modificabili all’interno della popolazione di riferimento.
I numeri del report Deloitte confermano questa intuizione. Nella stagione 2010/11 il Real Madrid ricavava dallo stadio € 123,6 mln; oggi ben € 129,0 mln; il Barcellona è passato da € 110,7 mln a € 121,4; lo United da € 120,3 a € 137,5; il Bayern Monaco da € 71,9 a € 101,8, ed il trend va stabilizzandosi anche per il club tedesco.
La Juventus non si sottrae a questa situazione: ha fatto il salto passando dai 15-16 mln € pre Stadium ai 40 mln € post Stadium, ma da allora l’incremento è stato minimo (€ 43,7 mln nell’ultima stagione). Il record dei 51,4 mln € dei ricavi matchday della stagione 2014/15 è ovviamente “drogato” dall’aver raggiunto la finale di Champions League, ma a parità di gare giocate l’incremento nei ricavi è minimo. E così sarà anche in futuro.
Poi ci sono i diritti televisivi, presunto fiore all’occhiello della Serie A, che mantengono di fatto il calcio domestico. Anche questo, però, è un fiore che sta appassendo (se non è già appassito). La Juventus, squadra leader in questo campo, nel 2005/06 ricavava dal broadcasting € 172 mln, che sono diventati € 195,7 nell’ultima stagione (+13,78%). Nello stesso periodo il Real Madrid passava da € 91,4 a € 227,7 mln (+149,12%); il Barcellona da € 76,6 a € 202,7 mln (+164,62%); il Bayern Monaco da € 42,8 a € 147,6 mln (+244,86%), colmando di fatto il gap. Ancora più impressionante, considerando il diverso criterio di distribuzione dei diritti TV, è stata la crescita delle squadre inglesi: il Chelsea da € 76,1 a € 191,1 mln (+151,12%); l’Arsenal da € 79,4 a € 192 mln (+141,81%); il Manchester United da € 65,9 a € 187,7 mln (+184,83%). É del tutto evidente il diverso trend di crescita.
A cosa è dovuta questa diversità? Semplice. Le squadre italiane hanno raggiunto molto prima delle altre il livello di saturazione dei diritti tv domestici, che sono, come i ricavi da stadio, difficilmente espandibili oltre una certa soglia. Gli appassionati di calcio, in un mercato maturo, aumentano solo se aumenta la popolazione; la spesa per gli abbonamenti tv è anch’essa dipendente dall’andamento del reddito pro capite e dalla propensione a spendere in beni voluttuari; l’ingresso di nuovi player dal lato dell’offerta si scontra con le inevitabili barriere all’entrata (in Italia sono in numero di 3 da tempo immemore: Rai, Sky e Mediaset): insomma, il mercato italiano è saturo da tempo. E una domanda satura vuol dire poche possibilità di espansione dei ricavi. Nel 2006/07 l’ammontare dei diritti TV riferibili alla Serie A era di 648 mln €, che diventavano € 863 nel 2007/08 [Fonte: Annual Review of Football Finance (May 2012), Deloitte]. Per il triennio in corso la quota annua ammonta a 1,169 bln € che, tolte le commissioni, la mutualità, il paracadute per le retrocesse, etc. diventano € 924 mln. Un incremento netto di 61 milioni di euro in 9 anni è decisamente poca cosa. Anche volendo restare al lordo, parliamo comunque di un incremento medio annuo ampiamente inferiore al 4%.
Nello stesso periodo la Premier League è passata da € 880 mln del 2006/07 ai circa € 2,3 miliardi/anno per il triennio 2017/2019, a cui bisogna aggiungere i proventi derivanti dalla cessione dei diritti tv esteri: circa € 1,9 miliardi/anno [Fonte: Marco Bellinazzo, Il Sole 24 Ore]. Stiamo parlando complessivamente di 4 miliardi di euro a stagione; anche considerando la recente svalutazione della sterlina rimane comunque una cifra pazzesca!
Voi direte: bella forza, quella è la Premier, la numero uno in tutto! Certo. Se non fosse che nello stesso periodo la Bundesliga li ha raddoppiati e La Liga addirittura triplicati [Fonte: Annual Review of Football Finance (May 2012), Deloitte]. Non serve che vi faccia i conti per dimostrarvi che la Serie A è praticamente ferma mentre gli altri galoppano. E se un mercato si espande e tu non cresci, di fatto stai “retrocedendo”. Nel caso della Serie A direi meglio “precipitando”.
La tabella che segue (ringrazio Nino Ori per la segnalazione) sintetizza egregiamente quello di cui sto parlando.
[Fonte: The World’s Most Valuable Soccer Teams 2017, Forbes]
Al di là del diverso metodo di calcolo utilizzato nei due report, che rende leggermente diversi i risultati, la sostanza è chiara: tutte le leghe sono cresciute molto più rispetto alla Serie A, che è rimasta fanalino di coda insieme al campionato francese.
E qui, consentitemi un’altra riflessione. Nel periodo in esame (2006/07-2016/17) la Serie A è stata vinta 4 volte dall’Inter, 1 volta dal Milan e 6 volte dalla Juventus; La Liga 4 volte dal Real Madrid, 1 volta dall’Atlético Madrid e 6 volte dal Barcellona; la Bundesliga 1 volta dallo Stoccarda, 1 volta dal Wolfsburg, 2 volte dal Borussia Dortmund e 7 volte dal Bayern Monaco; la Premier invece 3 volte dal Chelsea, 2 volte dal City, 1 dal Leicester e 5 volte dallo United; la Ligue 1 è stata vinta 2 volte dal Lione, 1 volta da Bordeaux, Marsiglia, Lilla, Montpellier, Monaco e 4 volte dal PSG.
- In tutte le leghe c’è una squadra che l’ha fatta da padrona, ad eccezione del campionato francese.
- In tutte le leghe 2 squadre si sono spartite il 70%-90% dei campionati, ad eccezione del campionato francese.
- La Liga spagnola e la Serie A hanno avuto lo stesso identico andamento, con 3 squadre che hanno vinto rispettivamente 6, 4 e 1 campionato ciascuno.
- La Bundesliga è il campionato più “concentrato” nelle mani di una sola squadra: il Bayern Monaco, che l’ha vinto ben 7 volte.
- La Ligue 1 è il campionato più incerto in assoluto visto che il PSG, la c.d. squadra padrona, l’ha vinto solo 4 volte e sono ben 7 le squadre che l’hanno vinto negli ultimi 11 anni.
- Queste 11 stagioni hanno visto alternarsi per la vittoria finale 3 squadre in Spagna, 3 in Italia, 4 in Germania, 4 in Inghilterra e ben 7 in Francia.
- Pur con le dovute approssimazioni, considerando un cambio $/€ di 0,89, i diritti tv sono cresciuti rispettivamente: +360% per la Premier League, +191% per la Bundesliga, +101% La Liga, +74% la Serie A, +42% la Ligue 1.
I numeri sarebbero ancora più impietosi se considerassimo che il vero salto nei ricavi da broadcasting la Serie A l’ha fatto tra la stagione 2006/07 (648 mln €) e la stagione 2007/08 (863 mln €): da allora questa voce è cresciuta solo del 30%.
Consentitemi quindi di sfatare un altro luogo comune: la Serie A non sarebbe appetibile perché scontata nell’esito finale. Se questo assunto fosse vero (di nuovo, come nel caso “più-vinci-più-guadagni”, non mi risulta che mai nessuno si sia preso la briga di verificare e studiare la correlazione in questione: è così e basta), la Ligue 1 dovrebbe essere la lega più appetita al mondo: invece non se la fila (quasi) nessuno, tanto da essere la lega che è cresciuta meno in assoluto. Dall’altra parte la Bundesliga, dominata da tempo dal Bayern Monaco e in cui non esiste alcun degno rivale accreditato dei bavaresi, coerentemente col precedente assunto, dovrebbe essere al posto della Ligue 1: invece è la lega cresciuta di più, subito dopo gli inarrivabili inglesi.
L’assunto che prevede che uno spettacolo sportivo sia appetibile solo se l’esito sul vincitore finale è incerto, per altro, non trova riscontro in nessuna disciplina sportiva. La box nell’era di Mike Tyson, la Formula 1 in quella di Ferrari-Schumacher, il ciclismo con Eddy Merckx, il motociclismo con Valentino Rossi, l’atletica con Usain Bolt, Serhij Bubka, Michael Phelps etc: tutti questi sport sarebbero dovuti sparire dalle televisioni durante il periodo citato, causa (presunta) certezza sull’esito finale della competizione; invece hanno vissuto la loro età dell’oro. Inspiegabilmente, secondo l’assunto in questione.
Tornando al calcio, l’assunto in questione non solo non vale se applicato al campionato nel suo complesso, ma non vale neanche per la singola partita, altrimenti Crotone-Empoli (22^ giornata), estremamente incerta nell’esito e decisiva per le sorti di queste due squadre, avrebbe dovuto avere infinitamente più spettatori di Juventus-Genoa, gara invece praticamente scontata. Ebbene, Crotone-Empoli ha totalizzato ben 1.707 spettatori (non allo stadio eh, davanti alla TV!) mente Juve-Genoa, con 1.457.756 spettatori, è stata la gara più vista della 33^ giornata. Anche più di Fiorentina-Inter, stessa giornata, certamente molto più incerta nel risultato [Fonte: Centro studi – Ascolti TV, Lega Serie A].
Se poi considerassimo “la partita” per quello che è, ossia uno “spettacolo”, l’assunto in questione cesserebbe completamente di avere il benché minimo significato. Romeo e Giulietta sono morti, il Titanic è affondato e Troia è stata conquistata con un cavallo: non solo conosciamo già l’esito ma sappiamo addirittura la trama, quindi perché andare al cinema o a teatro?
I dati di ascolto delle gare di Serie A sono pubblici; se volete perderci del tempo nel guardarli potreste scoprire l’acqua calda, ossia che gli ascolti sono correlati ai bacini d’utenza, NON all’incertezza sull’esito della partita. Il richiamo di pubblico di qualsiasi spettacolo è ovviamente legato al bacino d’utenza potenziale: non è un caso che TUTTI i produttori di spettacoli (nel nostro caso sarebbero la Lega di Serie A, la FIGC, il CONI e le istituzioni politiche preposte) lavorino appunto per allargare il bacino d’utenza potenziale. Chi è riuscito ad espandere al massimo il bacino d’utenza potenziale è cresciuto di più (vd Premier League), chi non c’è riuscito (vd Ligue 1 e Serie A) è cresciuto poco o niente.
Già, ma “come” ci sono riusciti gli altri?
Secondo me non esiste una sola ricetta vincente: ogni Lega ha messo a frutto le proprie peculiarità.
La Bundesliga è cresciuta sfruttando la sinergia con le multinazionali tedesche: emblematico il caso del Bayern Monaco, al cui capitale sociale partecipano le tedesche Adidas (maggiore sponsor del club nonché fornitore tecnico), Audi e Allianz (che sponsorizza anche lo stadio). Altrettanto significativi, solo per citarne alcuni, sono i casi del “Bayer” Leverkusen e del Wolsfburg, sponsorizzato Volkswagen. Ma l’esempio massimo di questa sinergia vincente è il Borussia Dortmund. Nei primi anni 2000 infatti il club versava in una situazione economica disperata, che lo costrinse perfino ad alienare il mitico Westfalenstadion. Quando il fallimento sembrava inevitabile, l’ingresso tra gli sponsor del colosso assicurativo tedesco Signal Iduna Group, da cui deriva l’attuale denominazione dello stadio, e l’intervento del Bayern Monaco (!), che concesse ai rivali un prestito senza interessi e senza garanzie (pensate al disagio e alle illazioni che scatenerebbe in Italia una situazione di questo genere!!!), salvarono la società. Oggi il Borussia Dortumnd, che quando era sull’orlo del baratro fatturava meno di € 80 mln ed era fuori dalla classifica Deloitte (2005), ha chiuso il bilancio 2015/16 con un utile di € 29,4 mln, fattura € 283,9 mln ed occupa un rassicurante 11° posto (ricordiamo che la Juventus è 10°, con € 341,1 mln di fatturato).
In Italia invece tutto questo non è successo e non succede. Eppure, colossi quali Enel, Eni, Saipem, Stmicroelectronics, Unicredit, etc. potevano (e potrebbero) tranquillamente svolgere un ruolo analogo per i club nostrani.
La Liga ha percorso un’altra strada. Il modello di sviluppo spagnolo ha deciso di sfruttare l’immagine degli attori protagonisti: i calciatori. Una tassazione estremamente favorevole (l’articolo 93 della Legge 35/2006, la c.d. “Legge Beckham”, prevedeva un’aliquota del 24% come imposta sui redditi per stelle del calcio e sportivi professionisti non residenti) ha consentito ai club di attrarre i grandi campioni, attraverso i quali hanno veicolato il loro marchio nel mondo. È convinzione di chi vi scrive che l’effetto della legge Beckam sia decisamente sovrastimato nell’immaginario collettivo; già nel nel 2010 infatti il governo Zapatero aveva ripristinato una tassazione del 43% per le retribuzioni superiori ai 600.000 euro annui (815.000 dollari) dei lavoratori stranieri residenti in Spagna, rispetto al 24% fino ad allora previsto. Tuttavia, il modello non cambiò. Una lunga teoria di campioni, cominciando da David Beckham, passando per Kakà e Ibrahimovic, fino a Cristiano Ronaldo e Leo Messi, si fece portavoce del calcio spagnolo nel mondo. CR7-Real Madrid-Messi-Barcellona-Liga spagnola sono ormai un tutt’uno nella mente degli appassionati di calcio. In estrema sintesi, il calcio spagnolo è andato a rimorchio di questi fenomenali cavalli da tiro, di questi due marchi prodigiosi, e tutto il movimento ha tratto beneficio dal duopolio Barca-Real. Oggi, in occasione della spartizione dei proventi derivanti dai nuovi contratti televisivi (1,3 mld di €, contro 1,17 mld € di quelli italiani), i club spagnoli cambiano i criteri di ripartizione, avendo però l’accortezza di prevedere che nessuno (!) possa prendere meno di quello che prendeva coi vecchi criteri (quando si dice “salvaguardare e valorizzare l’eccellenza”). Questa cosa in Italia non solo non è stata fatta ma già si pensa, con la prossima revisione dei criteri di redistribuzione dei diritti televisivi, di “togliere ai ricchi per dare ai poveri”, senza rendersi conto che depauperare le eccellenze finirà per danneggiare ulteriormente il sistema Serie A nel confronto con le altre Leghe. Una decina di milioni di euro in più al Chievo non gli faranno comunque fare nessun salto di qualità, mentre una ventina di milioni di euro in meno ai top club ridurrà la loro capacità di attrarre giocatori dai mercati esteri e farà peggiorare ulteriormente la loro già scarsa competitività internazionale. Con tutto quello che ne consegue.
La Spagna è un buon termine di paragone per capire cosa sarebbe potuta diventare oggi la Serie A, perché era un mercato del tutto analogo a quello italiano: tessuto sociale più simile al nostro rispetto a quello di tedeschi e inglesi, stesso sbilanciamento nei criteri di ripartizione dei diritti tv, la presenza di un duopolio (Real e Barca in Spagna, Juventus e Milan in Italia) che si era consolidato a partire dagli anni ’90. Avessimo seguito lo stesso tasso di crescita della Liga, oggi la torta da spartire tra i club sarebbe tranquillamente compresa tra 1,5 e 2 miliardi di euro. Nel 2006 si è deciso scientemente di porre fine al duopolio Juve-Milan e queste sono le conseguenze.
Ancora diverso il discorso per la Premier League: per la lega inglese il fattore decisivo è stato, secondo me, l’internazionalizzazione del brand “Premier”, che ha fatto a sua volta da traino ai marchi dei singoli club. Pur attuando una strategia diversa, per certi versi opposta a quella della Liga, il punto di arrivo è però stato lo stesso: in entrambi i casi è stato l’accesso ai mercati internazionali il fattore che ha fatto compiere il salto decisivo ai fatturati dei club.
Fattore che la Lega di Serie A invece non è stata in grado di sfruttare minimamente e che i singoli club non sono stati in grado di sviluppare autonomamente (ammesso che sia possibile). Non ci vuole un genio del marketing per capire che, a fronte di 30 milioni scarsi di possibili utenti italiani, là fuori c’è un modo di persone affamate di calcio. Centinaia di milioni di persone che hanno un solo modo per vivere la passione della propria squadra del cuore: la televisione (che sia via etere, via cavo o via web è irrilevante). La riprova è nella crescita dei diritti tv esteri. Nel triennio 2007-2010 gli 834 mln £ annui dei diritti tv della Premier erano così divisi: 626 mln £ (75%) domestici e 208 (25%) esteri. Oggi i 2,75 miliardi di sterline sono divisi tra 1,77 miliardi £ dei diritti domestici (+182%) e i 970 mln £ di quelli esteri (+466%). E i nuovi contratti saranno ancora più ricchi.
Prima considerazione. La Premier ricava dai soli diritti esteri lo stesso importo che la Serie A ricava in totale: se veramente, come da più parti si stima, il rinnovo dei contratti porterà al raddoppio di questa voce, direi che non serve aggiungere altro.
Seconda considerazione. Qualora il rinnovo dovesse portare in dote anche solo 1,3 mld £, questo significherebbe una crescita di questa voce pari al +625%. Niente, in questo decennio, ha avuto un tale tasso di espansione.
Come ci sono riusciti? Ritengo che in Premier abbiano fatto a monte una scelta strategica: ossia se considerare il calcio come “sport” o come “spettacolo”, decidendo per la seconda. Quindi si sono organizzati per “promuovere” questo spettacolo in tutto il mondo: tutto ciò che era funzionale al raggiungimento di questo obiettivo (dai palcoscenici di prestigio, alla tutela del marchio, fino a regole certe) è stato adottato e incentivato; tutto ciò che era di ostacolo è stato duramente combattuto (a cominciare dagli hooligans, passando dal rispetto di regole ferree per il rilascio delle licenze o per l’acquisto dei club, per finire con la censura delle dichiarazioni in libertà di dirigenti, calciatori e addetti ai lavori). Un modello costruito sulla falsa riga della NBA per capirci, dove se vuoi comprarti una franchigia devi dimostrare di potertelo permettere, dove devi garantire strutture sportive di un certo tipo, dove ogni volta che qualcuno dice una cazzata partono multe e querele come se non ci fosse un domani e dove gli scandali vengono gestiti cercando di minimizzarne il clamore. E la “tutela del marchio” viene fatta dalla Lega, non dai singoli club.
Non spetta a me esprimere giudizi su quale tra le due visioni sport/spettacolo sia la “migliore”, però credo di non sbagliare affatto quando affermo che, tanto per cominciare, una scelta sarebbe necessario farla; una volta fatta, sarebbe utile porsi degli obiettivi; infine, adottare tutti quei comportamenti che sono funzionali al raggiungimento dei questi obiettivi potrebbe effettivamente aiutare a raggiungerli.
“Ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est”, ed è per questo che il nostro calcio ristagna tra una discussione su come spartirsi una torta sempre più piccola e l’inutile e opportunistico starnazzo sull’arbitro di turno.
Nel frattempo l’internazionalizzazione dei marchi, che sia quello del singolo club o di tutta la lega, ha avuto un altro piacevole “effetto collaterale” in queste Leghe: ha attratto ricche sponsorizzazioni e incentivato il merchandising, ossia il cosiddetto commercial. Il Real Madrid è passato da € 125,6 mln a € 263,4 mln; il Barcellona da € 88,4 mln a € 296,1 mln; il Manchester United da € 73,6 mln a € 363,8 mln; il Bayern Monaco da € 109,8 mln a € 342,6 mln. Non solo i Top Club: anche i club “minori” hanno tratto beneficio dalla globalizzazione della lega di appartenenza. Tralasciando il Manchester City e il PSG, i cui ricavi derivanti da questa voce sono drogati dalla sponsorizzazione diretta dei proprietari, la crescita è comunque evidente e generalizzata: l’Arsenal è passato da € 49,2 mln a € 142,9 mln; il Chelsea da € 61,5 mln a € 163,1 mln; il Liverpool da € 56,8 mln a € 159,8 mln; il Borussia Dortmund, che nel 2006/07 fatturava in totale € 90,3 mln, oggi ricava € 140,2 mln solo dal commercial. Due scudetti e una presenza abbastanza costante nelle coppe europee, ok, ma certo non si tratta di un ciclo di successi sportivi tali da spiegare un incremento così importante di questa voce del fatturato.
E le italiane? Il Napoli nella stagione 2009/10 mise a bilancio € 37,7 mln di ricavi “commercial”: 4 anni dopo si trovava allo stesso punto (€ 36,8 mln). Non sono riuscito a trovare dati omogenei più recenti, ma dubito abbia fatto il salto di qualità negli ultimi anni, giacché la situazione di ristagno è generalizzata. Nel decennio in esame (2005/06-2015/16) infatti l’Inter è passata da € 47,0 mln a € 54,9 mln e la Roma da € 29,8 mln a € 35,8 mln. In pratica: niente. Da questo punto di vista ci si aspettava molto di più dai management di queste due squadre. La proprietà italo-indonesiana dei nerazzurri non ha saputo minimamente trasformare l’irripetibile golden age sportiva in risultati commerciali, così come “zero” sono gli incrementi prodotti dalla proprietà americana dei giallorossi: € 34,8 mln quando hanno comprato la squadra nel 2011, € 35,8 mln oggi, con l’aggravante di aver perso nel frattempo anche lo sponsor maglia. E dire che gli americani dovrebbero sapere bene come si gestisce questo ramo di business…
In parziale controtendenza il Milan, passato in questo decennio da € 53,6 mln a € 100,8 mln (ma nel bilancio chiuso al 31/12/2016 questa voce è in diminuzione), e la Juventus, cresciuta da € 62,7 mln fino a € 101,7 mln: non a caso i due marchi maggiormente spendibili all’estero. Sono assolutamente disposto a scommettere che questa voce continuerà a crescere nel bilancio della Juventus, mentre è tutto da scoprire cosa succederà al Milan e alle altre squadre di quella scuderia, ora che il cordone ombelicale con Infront è stato spezzato. Il rinnovo al ribasso del main sponsor Pirelli (Inter) e le voci di una richiesta di revisione del contratto (al ribasso, of course) da parte dello sponsor Adidas (Milan) non fanno ben sperare.
E qui, una domanda sorge spontanea: perché la stragrande maggioranza delle squadre di Serie A o sono addirittura senza sponsor maglia o devono accontentarsi di contratti risibili, mentre in altri campionati quegli stessi sponsor si picchiano per aggiudicarsi un marchio, contendendoselo a suon di milioni? Vi rispondo con un’altra domanda. Se voi foste una multinazionale, preferireste che il vostro marchio fosse visibile da centinaia di milioni di persone per decine di volte l’anno oppure da pochi milioni di persone una volta ogni tanto? Perché alla fine questo è il problema. La Premier e i soliti top team sono visti in tutto il mondo settimanalmente, mentre le squadre di Serie A sono viste dal solo pubblico locale e saltuariamente, ammesso che si qualifichino e che poi onorino queste competizioni, dal pubblico più ampio che guarda le competizioni internazionali. Ancora una volta è sempre e solo un problema di bacini di utenza: quelli contano e quelli sono pagati dalle multinazionali.
E veniamo quindi al nuovo marchio Juve. Cosa ha a che fare il cambio del marchio con tutto quanto scritto sopra?
La Juve ha la necessità, per competere ai massimi livelli sportivi, di incrementare ulteriormente i ricavi. Come può farlo? I ricavi da matchday non possono essere incrementati per tutti i motivi di cui sopra. I ricavi da broadcasting si potrebbero incrementare, ma SOLO con la partecipazioni di tutti gli attori e comunque con grande difficoltà e lentezza (le strategie da implementare sarebbero quelle tipiche di qualsiasi azienda commerciale che voglia vendere un prodotto immateriale, qual è appunto uno spettacolo: avvisatemi se vedete muoversi qualcosa in Lega o FIGC. Come dicevo prima, ad oggi nemmeno l’obbiettivo sembra “focused”, figuriamoci le strategie per raggiungerlo). Rimane quindi il commercial, ossia sponsor e merchandising. La domanda che immagino si siano posti in Sede è: come possiamo espandere il nostro bacino d’utenza, dal momento che non possiamo percorrere né la via inglese, né la via tedesca, né quella spagnola? Ed è così che è nata la strategia “BLACK AND WHITE AND MORE”, di cui il marchio è un elemento fondante.
Copio / incollo dal sito ufficiale Juventus alcuni passaggi che ritengo particolarmente significativi: “UN BRAND, UN’IDENTITÀ, UNO STILE. Juventus punta a dare al proprio brand un significato più ampio e profondo, trasformandolo in una vera e propria identità e in uno stile. In coerenza con i propri valori, Juventus offrirà esperienze uniche per il cuore del proprio pubblico di appassionati – i tifosi – ma rilevanti per una audience più ampia. Black and White and More è un piano di ampio respiro volto a concretizzare la propria filosofia, la ricerca dell’eccellenza senza compromessi, in iniziative, progetti ed esperienze radicalmente innovative, delle quali il calcio sarà sempre l’origine, ma mai il confine. Black and White and More declinerà il ‘modo di essere’ Juventus – i princìpi e i valori del Club – in esperienze diversificate e innovative, rivolte sia agli appassionati bianconeri di tutto il mondo, sia a coloro che sono oggi meno vicini al mondo del calcio. Non vogliamo che le persone vedano soltanto la prestazione di una squadra, ma che possano anche vivere lo spirito più profondo del Club. Il nuovo logo rappresenta la Juventus nella sua essenza: le strisce della maglia, lo scudetto della vittoria, la J del nome. Tre elementi che costituiscono il DNA della Juventus: in primis, le strisce bianconere, che diventano il tema comunicativo della nuova identità visiva, declinato e interpretato su qualsiasi interfaccia. Quindi la stilizzazione di uno scudetto, a rappresentare la determinazione con cui il Club ha sempre perseguito, e sempre perseguirà, la vittoria. In terzo luogo, la J, un’iniziale distintiva, cara ai tifosi. Il nuovo logo fonde questi tre elementi in un simbolo unico e universale, in grado di rappresentare non soltanto una squadra di calcio, ma anche un’identità, un’appartenenza e una filosofia. Soprattutto, è un logo che si lascia con coraggio alle spalle i conformismi degli stemmi calcistici.”
Direi che non serve aggiungere molto altro. La strategia è evidente, il piano ambizioso: si punta a coinvolgere tutti i consumatori, anche quelli che hanno a che fare col calcio solo marginalmente (modello “Ferrari” per semplificare). Otterrà i risultati sperati? Riuscirà la Juventus a conquistare il mercato globale senza il traino del campionato e senza un fatturato che permetta di acquisire e trattenere i grandi nomi, per farne poi dei “portabandiera commerciali”? Basteranno l’uso dei social media ed i local sponsor per raggiungere la fetta di consumatori desiderata?
I risultati recenti sono incoraggianti. Nel bilancio al 30/06/2015 i Ricavi da sponsorizzazioni e pubblicità e i Ricavi da vendite di prodotti e licenze ammontavano complessivamente a € 53,76 mln; da allora la progressione (semestrale) è stata: € 34,22 mln + € 6,79 mln; € 35,79 mln + € 6,72 mln; € 36,45 mln + € 9,21 mln; se le stime saranno confermate nel bilancio 2016/17 questa voce dovrebbe chiudersi intorno ai 100 milioni di euro complessivi, rispetto ai soli € 53,76 mln di due anni fa (se non vi tornano i conti con le cifre riportate nel report Deloitte è per via del diverso metodo di calcolo di queste voci ndr).
Anche il fatto che Sportfive sia finalmente riuscita a vendere i naming rights dello Juventus Stadium (per ora unico caso in Italia), benché non porti ricavi aggiuntivi alle casse societarie, è comunque un segnale che si procede nella giusta direzione (pare che contestualmente Allianz abbia siglato anche un accordo di sponsorizzazione con la Juventus, che produrrebbe circa € 1,5 mln all’anno di ricavi aggiuntivi, ma per ora di questo contratto non c’è traccia nei comunicati price sensitive del sito della Juventus FC).
Credo che un obiettivo realistico nel medio periodo per questa voce di ricavi sia compreso tra i 150 e i 200 mln di euro, ossia davanti a club come Arsenal, Chelsea, Liverpool e Borussia Dortmund e dietro solo agli irraggiungibili Real, Barcellona, Bayern e Manchester United (ci sarebbero anche City e PSG, ma il confronto con queste due realtà è scarsamente significativo per i ben noti motivi). La speranza è che un marchio più “accattivante” contribuisca a dare l’accelerata decisiva.
Detto questo, la strategia in questione DEVE risultare vincente, perché comunque non ne vedo altre percorribili. E bisogna fare in fretta, perché conquistare un nuovo mercato vergine è molto più semplice che scalzare un competitor che è arrivato prima di te.
Come dicevo nel titolo, la globalizzazione non attende e la Juve ha già accumulato abbastanza ritardo (il calcio italiano lasciamo perdere).
#FinoAllaFine
NDR: se non diversamente indicato, la fonte dei dati riportati sono i “Deloitte Football Money League” delle edizioni dal 2007 al 2017.
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