

Non avrei mai immaginato che la sfida tra Guardiola e Mourinho avrebbe potuto suscitare in me ancora interesse. Dopo tutta la retorica piovuta dalle pagine di giornale sullo scontro tra i due allenatori, più culturale che sportivo, pensavo di averne abbastanza, anche se oggi li ritroviamo di nuovo duellanti sulle panchine di rivali storiche: dopo Real e Barcellona tra il 2010 e il 2012, le due squadre di Manchester.
Eppure il libro “Duellanti” di Paolo Condò riesce a tenerti attaccato alle pagine nonostante, della storia che racconta, si conosca già il finale. In questo caso, però, non conta né la storia né il finale: conta il viaggio (quale miglior recensione di citare un famoso slogan?). Un viaggio breve, solo 18 giorni, ma lunghissimo, perché il tragitto è quello che ognuno di noi percorre lungo la propria esistenza. La scoperta di se stessi e dei propri confini.
Tra il 16 aprile e il 3 maggio 2011 il destino, travestito da pallina per il sorteggio, mette di fronte il Real di Mourinho e il Barcellona di Guardiola per ben 4 volte: semifinali di Champions, finale di Coppa del Re e partita di campionato. Il viaggio di Condò lambisce appena i risultati delle gare poiché il campo, per questa volta, fa solo da contorno alla battaglia (mediatica, tattica, culturale, psicologica, strategica) tra i due tecnici più famosi di inizio millennio.
Il basso profilo tenuto da Guardiola, fin quando non viene definitivamente stanato da Mourinho, contro l’attacco frontale a tutti i costi del portoghese. Due prime donne diverse in tutto, dalla filosofia di gioco ai lati del carattere, dal modo di porsi con la stampa a quello con i calciatori, due modi diversi di esercitare il medesimo principato da parte dei due ex amici. Già, Mourinho e Guardiola sono stati “amici”, un tempo, entrambi tesserati per il Barcellona; e il gustosissimo prologo racconta meglio di qualsiasi altra teoria l’origine del dualismo.
Il libro è un continuo perscrutare l’intelligenza di entrambi, l’avventurarsi in due spedizioni speleologiche il cui obiettivo è arrivare in fondo alla stessa grotta sotterranea, solo che ognuna percorre il sentiero opposto dell’altra. Chi prevarrà?
Ho avuto l’onore di parlare del libro con l’autore e, come era prevedibile, gli argomenti della chiacchierata sono scivolati anche oltre l’opera stessa e, uno in particolare, si è rivelato attualissimo nei giorni successivi alla telefonata, avvenuta subito dopo l’ultimo Juve-Napoli.
Ciao Paolo. Racconti che sia Mourinho che Guardiola utilizzano il coaching per preparare le conferenze stampa più importanti: i collaboratori li bombardano con quelle che presumibilmente saranno le domande più scottanti da aspettarsi. Da quando e perché il rapporto con l’opinione pubblica è diventato un asset vitale nella professione di allenatore?
Ci sono allenatori che lo fanno da parecchio tempo, però credo sia diventato un bagaglio naturale di un allenatore di vertice da quando Mourinho ha fatto capire che la comunicazione è fondamentale.
Attribuisci a lui la paternità di ciò?
No, la paternità no, perché delle forme meno evolute di coaching le eseguiva anche Helenio Herrera, però il farsi intervistare dal proprio ufficio stampa o dal proprio collaboratore che è in grado di fare le domande più cattive che possono arrivare poi in conferenza stampa, in modo da essere preparati a questo tipo di domande, credo che sia diventato molto diffuso da quando Mourinho ha fatto capire che si può fare la differenza anche in una conferenza stampa.
Ci sono molti allenatori che ritengono le conferenze stampa un fastidio e non una parte necessaria della loro professione e le eliminerebbero volentieri. Da Mourinho in poi, invece, ci si è resi conto che una conferenza stampa fatta in un certo modo può portare dei vantaggi, può galvanizzare i propri giocatori, può spaventare i giocatori avversari, può seminare il nervosismo e l’eccitazione nei tifosi e quindi, i più evoluti fra questi, si comportano in questa maniera per guadagnare un vantaggio già dalla conferenza stampa.
Lo stesso Allegri dice spesso che gli allenatori svolgono anche una parte da psicologi.
Sì, adesso non so esattamente quali siano le varie modalità con le quali gli allenatori fanno questo ma anche Allegri, certamente, prepara le conferenza stampa. Se tu noti c’è sempre una battuta, c’è sempre una cosa che dà il titolo, c’è sempre qualche meccanismo che ti fa pensare. La prima volta pensi “Ah, senti Allegri che prontezza di spirito a farsi venire questa battuta!”. Quando poi la cosa si ripete cinque, sei, dieci volte consecutivamente capisci che non è soltanto prontezza di spirito ma anche preparazione.
A proposito degli aspetti psicologici del mestiere di allenatore, a me ha fatto riflettere quando racconti dell’utilizzo di Pepe, il difensore brasiliano ancora oggi in forza al Real, schierato in un paio di quelle partite da Mourinho a centrocampo. Secondo te lo ha fatto anche per una questione “psicologica”, se mi passi il termine?
Quella scelta, secondo me, fu principalmente tattica. Ricordi quando Capello mise Desailly centrale di difesa? Aveva bisogno di uno in quella posizione che conoscesse le arti proprio del difensore.
Il passaggio da centrocampista a difensore lo vedo quasi più naturale, per un difensore giocare in mezzo al campo un po’ meno.
Vero, però quando la squadra avversaria ha un centrocampista particolarmente decisivo nell’ispirazione della manovra o un attaccante che parte da lontano, come poteva essere Messi in quel caso, andare a marcarlo e seguirlo a uomo può avere la sua utilità. Un po’ come accadeva spesso a Pirlo, quando bloccare la creatività di Pirlo era un tentativo di bloccare lo sviluppo del gioco della Juve. In generale è una cosa che, nel calcio moderno, non fa quasi più nessuno. Mourinho lo fece più per intasare le linee di passaggio del Barcellona che per una questione intimidatoria. Non lo escludo del tutto, però sono sempre le conferenze stampa di Mourinho a fare luce sulle sue reali intenzioni, infatti lui cita tutte le volte in cui si è trovato in inferiorità numerica per via di qualche espulsione, cosa che accadrà puntualmente anche in quei 4 match, e lui sa benissimo che si tratta di un’arma a doppio taglio e che mettere a centrocampo Pepe per intimidire Messi poteva essere pericoloso.
Pensi che Mourinho stia già percorrendo la parte di parabola discendente della carriera e che non sia un grande tattico (tu stesso scrivi che “otto delle prime dieci cose che ricordiamo di lui sono state dette a un microfono”)? Oppure ha semplicemente sbagliato campagna acquisti?
Mentre Guardiola, all’interno della storia del calcio, lo ricorderemo per le innovazioni tattiche del suo Barcellona che poi ha proseguito anche a Monaco e adesso a Manchester, Mourinho verrà ricordato per l’aspetto motivazionale. Non ci sono delle grandi invenzioni tattiche che possono essere ascritte a Mourinho. Però ha certamente portato il livello di comunicazione e di motivazione al livello successivo. È stato il primo a fare un determinato lavoro.
È chiaro che fare un determinato lavoro, come quello di Guardiola, richiede molta fatica per essere assimilato e comunque Guardiola cerca sempre di essere continuamente un passo avanti. Nella comunicazione, più di tanto non puoi andare lontano, più di tanto non puoi innovare e quindi vieni raggiunto. È chiaro che Mourinho, persona di spiccata intelligenza, sta cercando di evolvere il suo tipo di lavoro. Allo stesso tempo, secondo me, la campagna acquisti di quest’anno presta il fianco a molte critiche e dubbi perché ha puntato fortissimo su Ibrahimovic, che non è più un ragazzino. Ibra è uno che ti spinge avanti la squadra, come ha fatto a Parigi, ma che allo stesso modo te la condiziona. Hai 10 giocatori che giocano in funzione di quello che fa Ibrahimovic e se tu hai uno dei giocatori più forti al mondo puoi accettare questo tipo di condizionamento. Quando questo calciatore comincia un po’ a declinare, e forse per Zlatan è cominciato il declino, sei un po’ prigioniero.
E poi avere Pogba, Mata, Rooney, Mkhitaryan, tutta gente che gioca a pallone, non puoi certo costringerli a giocare solo in funzione di Ibra.
Certo. E poi – non è la prima volta che ce lo diciamo – è stata molto brava la Juve, ed è stato molto bravo Raiola, a costruire attorno a Pogba, che ovviamente è un grande giocatore, questa patente di calciatore più pagato al mondo, che per me è un’esagerazione.
Anche noi juventini, l’anno scorso, abbiamo visto che Pogba non era ancora un calciatore completo, un calciatore totale. Lo vedevamo sparire per lunghi tratti di partita.
Non solo, ma, per principio, per me il giocatore più pagato al mondo deve essere uno che ti fa 40/50 gol a stagione, deve essere un attaccante. Per quanto un centrocampista possa essere fortissimo, io che come sai stravedo per Iniesta, una cifra del genere non l’avrei pagata neanche per Iniesta, che rispetto a Pogba è ancora di un altro pianeta, con tutto il rispetto.
Ti dico, quindi, che la combinazione Juventus-Raiola ha creato questa storia di Pogba giocatore più pagato al mondo in cui il Manchester United e anche Mourinho sono caduti. Per Pogba avrei speso 50/60 milioni, non di più.
La partenza di Pogba è ancora adesso un argomento molto caldo nella tifoseria juventina, quindi approfondiamolo, anche perché tu mi fornisci una chiave di lettura che ribalta la posizione della Juve, da società che ha quasi subito la cessione di Pogba ad attore principale, quasi organizzatrice della stessa. Secondo te la Juve era contenta di cederlo a quelle cifre?
La Juve e Raiola si sono spartiti i 105 milioni della cessione. Nel momento in cui ci sono queste cifre a me sembra abbastanza evidente che la decisione è stata presa nel momento in cui Pogba lo hai preso. Il suo manager l’ha portato alla Juventus, ma se in base alle sue strategie Raiola lo avesse portato all’Inter o al Milan o al Barcellona o al Real Madrid avrebbe fatto la stessa cosa. E invece lo ha portato alla Juventus e, nel momento in cui, quattro anni dopo guadagna 27 milioni di Euro da questa cessione, mi pare evidente di come sono andate le cose. Nel momento in cui la Juventus ottiene questo giovane, probabilmente il più ambito del mondo in quel momento, da una parte si fa carico di dire “io lo lancio e sviluppo al meglio tutte le sue potenzialità”, dall’altra è già d’accordo che quando arriverà il momento giusto (e hanno deciso fosse quest’anno) si sarebbe fatto questo affare che avrebbe portato una maxi-plusvalenza nelle casse della Juve e una nelle casse di Raiola.
Torniamo al libro. Ti faccio la domanda cattiva anche su Guardiola: senza Messi nemmeno lui è più riuscito a vincere la Champions, vedremo quest’anno. Sembra che, arrivato in fondo alla massima competizione (Allegri era a un passo dall’impresa già agli ottavi), ci sia sempre un allenatore più scaltro che abbia imparato a inceppare il suo meccanismo di gioco e indovinare la contromossa ai suoi “esperimenti” (definizione ironica di Benatia).
Guardiola è il tipo di allenatore ma anche il tipo di uomo, se vogliamo, che praticamente non si accontenta mai. Ritiene il suo lavoro, allenare le squadre, un’opera continuamente aperta, sempre da innovare, sempre da migliorare e così via. E se si ferma viene raggiunto dagli altri, perché anche gli altri corrono. Probabilmente non sempre i passi che fai sono dei passi avanti, possono rivelarsi anche dei passi indietro e poi nel calcio, come era successo per Maradona ai suoi tempi, e come succede per Messi, ci sono dei giocatori, alla grande se ce ne è uno per generazione, che possono vanificare con il loro talento e le loro capacità ogni passo avanti che hai studiato.
Non ho remore a dirti che Guardiola, dal punto di vista calcistico, abbia fatto e verrà ricordato più di Mourinho per quello che ha fatto dal punto di vista puramente calcistico, però c’è anche un’obiezione a questo mio discorso, obiezione che va accolta: Guardiola ha vinto 2 Champions League e ogni volta aveva Messi dalla sua parte. Mourinho ha vinto anche lui due volte la Champions League ma non aveva Messi dalla sua, anzi, la seconda volta lo aveva da avversario.
Siamo nei giorni di Juve-Napoli: Allegri contro Sarri. Con le dovute proporzioni, potrebbe questo rappresentare la riproposizione italiana del “Guardiola-Mourinho”? E, secondo te, il calcio italiano inteso come modello di entertainment da esportare, ne ha bisogno?
Allegri è un grande allenatore sotto tutte le sfaccettature. È molto bravo dal punto di vista tattico, è molto bravo a leggere le partite ed è anche molto bravo a imporre il suo personaggio, perché Allegri è un personaggio sicuramente molto riconoscibile, ormai. Oggi noi sappiamo cosa aspettarci da Allegri. Sarri, invece, è un protagonista molto riluttante a questo mondo dal punto di vista mediatico. Sarri per esempio non ha una comunicazione, ti dice qualsiasi cosa gli passi per la testa, è praticamente l’opposto di Mourinho.
Allegri è un personaggio più mourignano anche per il tipo di calcio che fa. Calcio molto basato sulla solidità della squadra e sulla concessione di opportunità in avanti ai campioni che puoi schierare.
Quindi tu associ Allegri più a Mourinho che a Guardiola?
Sì, assolutamente sì, dal punto di vista tattico sì. Per entrambi tutto parte dalla solidità della difesa, della fase difensiva e arriva davanti dove hai alcuni grandi campioni e la creazione del maggior numero possibile di opportunità dove questi grandi campioni possono piazzare il loro colpo. Il calcio di Allegri è questo.
Un calcio senza grandi schematismi, quindi. Associ, pertanto, più Conte a Guardiola?
Conte è un’altra cosa ancora.
È la creazione molto aggressiva di un disegno nel quale Conte è come se giocasse col joystick. Lui dice ai giocatori tutto quello che devono fare e, in questo modo, li guida alla vittoria. In questo senso Conte ha una magia straordinaria, nel migliorare i giocatori. Lo abbiamo visto alla Juventus, sicuramente, ma soprattutto in Nazionale. Ricordiamo i discorsi che si facevano prima degli Europei: “Non superiamo il girone, abbiamo giusto dei bravi difensori ma poi tutto il resto è da buttare…” Se poi andiamo a vedere quello che ha fatto l’Italia c’è da restare stupefatti.
Allegri è più un allenatore che concede il libero arbitrio, ogni giocatore ha quelle tre o quattro opzioni di gioco e poi sta a lui scegliere, tra quelle, quale esercitare.
A proposito di ciò, è stata perfetta la consecutio degli allenatori alla Juventus: prima per 3 anni hai avuto quel tipo di allenatore, e poi scegliendo Allegri ti sei potuto permettere di mantenere gli stessi giocatori. Un po’ quello che successe al Milan passando da Sacchi a Capello. Cioè mantieni gli stessi giocatori ma, cambiando il tipo di gioco e allenamenti è come se reinventarsi i calciatori, li rigenerassi.
Alla Juve, inoltre, è come se avessero liberato mentalmente i calciatori. Con la dichiarazione dopo la vittoria di Roma, Conte disse che quella rosa ormai era spremuta al massimo, finendo per motivare quei calciatori, quasi da costringerli a dimostrare che non era Conte a fargli vincere le partite.
Certamente.
Sarri, invece, è diverso. La didattica del calcio di Sarri è molto più sulla costruzione di un meccanismo unico, di un blocco unico di undici giocatori che giocano sempre alla stessa maniera. È, questo, il cosiddetto calcio di posizione, che è praticamente il calcio di Guardiola o quello che ora propone Tuchel del Borussia Dortmund, molto bravo.
E Sampaoli.
Sì, esattamente.
Per quale motivo si dice che la Juventus può vincere anche senza giocare benissimo mentre il Napoli ha bisogno di giocare benissimo per vincere? Proprio perché il calcio della Juventus è un calcio basato anche, non dico assolutamente solo ma anche, sul colpo del campione mentre invece il Napoli, che ha meno campioni, ha bisogno che il meccanismo giri alla perfezione.
Cosa mi dici, invece, sulla mediaticità della cosa? In un’ottica di vendita del prodotto all’estero, ne avremmo bisogno o l’ambiente è già abbastanza esasperato così?
Ma sì, le rivalità sono il sale del calcio, le rivalità sono mediatiche, fanno parlare di sé. Negli anni in cui Mourinho e Guardiola se le davano di santa ragione in Spagna, non c’è dubbio alcuno che la Liga fosse il campionato più seguito al mondo, perché c’erano questi personaggi.
I miei ricordi tornano spesso agli anni di Rocco ed Herrera, quando in Italia si viveva una grande rivalità dialettica tra allenatori, poi ce ne furono anche altre, di divertenti. Tuttavia ci vorrebbe innanzitutto una maggiore rivalità e competitività fra le squadre. La Juventus ha vinto 5 scudetti ed è la favoritissima per vincere il sesto, è chiaro che a voi juventini va benissimo così, ma se invece dobbiamo guardare da un punto di vista più generale, è chiaro che una maggiore competizione non potrebbe che fare bene al campionato.
Quest’anno anche il campionato spagnolo è equilibrato, si è aggiunto pure il Siviglia alle altre tre, sono in quattro ai piani alti della classifica, ma nonostante ciò tutti parlano solo dell’Inghilterra perché c’è Mourinho, c’è Guardiola, c’è Conte, c’è Klopp. L’aspetto mediatico è importantissimo.
È vero, in Spagna sono diventate 4 e questa è una bella cosa. In Inghilterra sono in sei o sette, è chiaro che l’Italia, in questi anni, è diventato un campionato come la Francia o la Germania in cui c’è una squadra molto superiore alle altre.
Ma secondo te è la Juve che sta correndo troppo o sono le altre ad aver rallentato?
Tutte e due le cose. la Juventus è molto ben gestita e quindi se la Juventus non fa cazzate può prolungare nel tempo il suo dominio. Dall’altra parte, a Roma e Napoli puoi dire poco. Se guardi alla loro storia stanno comunque facendo bene. Sono le due milanesi a essere sparite. C’è la necessità che le due milanesi tornino a essere competitive ai massimi livelli. Almeno avremmo un campionato con Juventus, Milan, Inter, Roma e Napoli e sarebbe un bellissimo campionato.
Nel libro sono presenti molti aneddoti ricavati, immagino, da confidenze che provengono da dentro le sacre mura di uffici societari e spogliatoi. Come si raggiunge un tale grado di penetrazione? Perché un tesserato decide di passare una velina al giornalista?
Perché c’è un rapporto di fiducia che dura molto nel tempo, le confidenze che io ho ricevuto sono legate al fatto che questi personaggi mi vedono in giro da anni e quindi conoscono e apprezzano il mio lavoro e la mia serietà, stesso discorso per il quale le interviste di “Mister Condò” generalmente vengono bene: gli allenatori mi dicono qualcosa che non direbbero nelle altre interviste, perché sanno che quello che verrà fatto è un lavoro soprattutto divulgativo. A me piace spiegare che cosa succede nel backstage del calcio e il perché si verificano determinati avvenimenti. Poi è chiaro che la prima volta che mi sono presentato su un campo di calcio nessuno mi abbia filato nemmeno di striscio.
E per quello che riguarda più in generale il mestiere di cronista sportivo? In “Duellanti” riporti le confidenze ottenute da un giornalista spagnolo molto vicino all’ambiente madridista.
Mi spiego meglio: spesso sui giornali leggiamo cose che magari uno può anche sapere, ma che altrettanto spesso si rivelano false.
Diciamo che, naturalmente, ogni giornalista, ogni bravo giornalista ha le sue fonti, delle persone che gli raccontano delle cose. Più il giornalista è bravo più queste sono fonti importanti che raccontano delle cose che poi si verificano. Però c’è anche da tener presente che esistono delle fonti che curano loro interessi e quindi ti raccontano delle cose perché magari sperano che accadano. Il gioco consiste nell’avvicinare quanto più possibile la verità senza cadere nella trappola di qualcuno che ti vuole usare per diffondere la sua verità.
Perché un tesserato si spinge a tradire la fiducia della società?
Perché ha i suoi disegni, perché vuole acquisire più potere all’interno della società. Qualsiasi fonte, visto che in questo determinato discorso non esiste denaro, nessuno paga per farsi raccontare le cose, qualsiasi fonte, dicevo, ti racconta le cose perché ci sono delle amicizie e un rapporto di confidenza. A me succede questo, generalmente. O sono persone che io conosco da tempo oppure sono delle persone che hanno visto come ho trattato chi mi ha concesso confidenza e allora anche a loro fa piacere far parte di questo circolo.
Poi, sai, io leggo quotidianamente alcuni giornali e, essendo del mestiere ho l’occhio clinico, so distinguere il giornalista che scrive qualsiasi cosa gli venga raccontata, senza minimamente pensare al perché gli è stata raccontata e, invece, il giornalista che medita in modo critico sulle cose che gli sono state raccontate e le filtra. In questi giorni, per esempio, se ne sentono tante sull’Inter e sul cambio di allenatore. È abbastanza facile capire chi sono gli ispiratori di determinate notizie che filtrano. Se hai un occhio allenato è facilissimo capire.
Un’ultima curiosità: tu sei l’unico italiano a votare per il Pallone d’oro. Ora che c’è stata la scissione tra France Football e la Fifa, tu per chi esprimerai la preferenza?
Per France Football e, quindi, per il premio che tornerà a chiamarsi “Pallone d’oro”.
Tornerà a essere il vecchio premio o continuerà la diarchia CR7-Messi?
Forse non da quest’anno, Cristiano Ronaldo ha vinto Champions League ed Europeo ed è quindi il naturale favorito, ma dai prossimi anni è probabile che il Pallone d’oro torni a essere una cosa più simile al premio Oscar, un riconoscimento che premi la stagione. L’Oscar non lo vince sempre Robert De Niro. Allo stesso modo, il Pallone d’oro dovrebbe tornare a essere vinto dai giocatori che in quella stagione sono stati più decisivi.
Grazie della chiacchierata, Paolo, e ancora complimenti per il bellissimo libro.