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Poco più di undici anni fa, il 19 maggio 2010, Andrea Agnelli fu eletto Presidente, un raggio di luce dopo anni di buio e preludio di due lustri complessivamente strepitosi. Appena tre giorni dopo l’Inter vinse la sua terza coppa dei campioni a coronamento di quattro stagioni di dominio nazionale in campo e fuori. E di almeno otto topiche arbitrali pazzesche concentrate in una manciata di partite, tutte ostinatamente orientate nella stessa direzione.

Premessa utile a ribadire per l’ennesima volta da dove siamo partiti e per abbozzare anche una riflessione su come si arrivò a quel punto. Evito di tornare sul fattore determinante, la farsa perpetrata nei vari tribunali di questo povero paese, per focalizzarmi sul fattore tecnico e gestionale. L’Inter morattiana nel 2006 arrivava da 12 anni di insuccessi e 1000 miliardi di lire spesi ma aveva posto delle basi su cui provare a costruire un progetto vincente. Nelle ultime due stagioni aveva prima soffiato Stankovic alla Juve, preso a zero Cambiasso dal Real, poi comprò Samuel, Figo e Julio Cesar, tanto che Moggi ammise che i nerazzurri si erano rinforzati e che avrebbero potuto “addirittura” aspirare al secondo posto.

Certo che negli anni precedenti, l’Inter, aveva mostrato un campionario di tutto ciò che non bisogna fare nella conduzione di un club di vertice. Vecchie glorie inserite in organigramma non si sa bene con quali competenze e quali compiti. Cronica e contestuale mancanza di una figura dirigenziale autorevole e capace. Goffe manovre per tesserare giocatori uruguaiani. Cessioni di giocatori giovani che andarono a far bene altrove e acquisti discutibili di calciatori mezzi rotti con ingaggi principeschi. Due allenatori sempre a libro paga e voci continue sul successivo. Gestione pessima del rinnovo contrattuale di un sudamericano mancino, talentuoso ma discontinuo, con l’effetto di doverlo perdere a zero o di coprirlo d’oro. Molte chiacchiere fuori dal campo e pochi fatti dentro. Piazzati a doppia cifra in Italia ed eliminati in Europa da compagini improbabili. Disciplina di spogliatoio tipo ferragosto a Ibiza ma a marzo, viva la libertà e l’anno prossimo chissà.

Tutto ciò vi ricorda qualcosa? A me sì.

Eppure mi ricordavo che il modello fosse un altro. John Elkann in un’intervista al CorSport appena dopo la finale di Champions del 2013 dichiarava: “Il Bayern Monaco ha dimostrato che si può vincere con una finanza sostenibile”. E in effetti aveva speso in cartellini nel triennio precedente più o meno la metà della Juventus. Il cugino alla vigilia della doppia sfida nel gennaio 2016 indicava anch’esso Rummenigge come esempio di gestione da imitare, con l’auspicio che la sconfitta di Berlino fosse il punto di partenza per una futura vittoria come lo fu Madrid per il Bayern. Ora, al netto che il Bayern l’ha rivinta, mi pare vi siano altre differenze. Innanzitutto per i cartellini continuano a spendere molto meno di noi, considerando che il terzo acquisto più costoso della loro storia rimane quello di Javi Martinez per 40 milioni nell’estate 2013. Poi uno con il palmares di Thomas Müller guadagna come Ramsey, Rabiot con i bonus potrebbe raggiungere Lewandowski, il loro calciatore più pagato. Altri esempi simpatici? Kulusevski e Bernardeschi prendono come Gnabry, Arthur quanto Alaba.

Quello che mi preoccupa non è la stagione “bucata” ma la velocità di progressione del declino nelle ultime due stagioni e mezza. Un’anima frantumata, persa, tenuta assieme con lo scotch lo scorso anno e svanita in modo sconcertante in questo. Il fine ciclo ci sta. Però rispetto all’Inter in un triennio si è passati da un + 30 fisso a -12 (and counting), in Europa dal giocarsi finali di Champions alla prospettiva Europa League.

I fattori causa di un tonfo di tali dimensioni sono ovviamente molteplici ma il manico, il capo, è inevitabilmente uno dei più pesanti. Nel finale dello scorso decennio fu tirato in mezzo, in modo a parer mio pretestuoso, nell’inchiesta sugli ultras; la conseguenza diretta è stata la sua decisione di cancellare totalmente il tifo organizzato, un caso senza precedenti nell’Europa continentale. Scelta legittima per carità, forse un filo drastica e presidente-centrica, sicuramente disfunzionale a tutelare il fattore casa della squadra. Il fatto è che stava già in più alte faccende affaccendato, il futuro del calcio italiano, europeo e mondiale diventava sempre più chiaro nella sua testa. Quello della Juventus nel frattempo si faceva più nebuloso, ma tant’è.

C’è poco da fare, si sente proprio tagliato per il ruolo istituzionale e infatti, silurato Marotta, è rimasto l’unico referente del club per Lega Calcio e FIGC. Con risultati straordinari, diciamolo. La Juve porta il pallone e se gli avversari si presentano a giocare, bene, altrimenti ci si vede tra qualche mese, quando sono comodi. Negli ultimi dieci anni siamo stati il club più dominante tra quelli dominanti delle big five leagues e siamo l’unico tra questi a non essere ampiamente primo nel proprio campionato nel saldo rigori a favore/contro (siamo quinti). Accendono il VAR quando c’è da impiegare cinque minuti per trovare il frame sul fuorigioco di un micron, con la riga sotto la suola del difensore avversario. Il club più prestigioso, in mano alla famiglia più potente d’Italia, trattato come Fantozzi alla partita di biliardo con l’On. Cav. Conte Diego Catellani.

Se vincere è l’unica cosa che conta, alla lunga, la retorica del “contro tutto e tutti” lascia il tempo che trova. Specie quando non funziona o è più difficile, tipo in Europa.

Lì il Gran Maestro di Diplomazia si adopera da anni per ledere gli interessi di chi organizza la competizione più importante per il club di cui è presidente. La Super Lega è il sogno di qualsiasi  juventino razionale, lasciare in braghe di tela Lotito col suo circo di nani e ballerine sarebbe auspicabile quanto prima. Sul fatto che debba essere per forza Andrea il front man, ricordando Alves su Pogba, la doppia sfida col Bayern, i fruttini di Oliver, i rigori dati e non dati contro Ajax, Porto e Lione, io due domande da tifoso, oggi, me le faccio. Lui no evidentemente. Lui preferisce ricordare che per merito suo il sistema calcio in Italia ha avuto l’ossigeno dei quattro posti garantiti in Champions League. Sistema che sta palesando nei suoi confronti un’infinita riconoscenza, come ho voluto sommariamente riassumere sopra.

Ho l’impressione che la Juve gli stia stretta e che, purtroppo, fare tante cose e tutte bene non sia nelle sue corde. Peraltro ha accentrato su di sé pure i compiti di rappresentanza, quelli di relazioni e l’area tecnica fa naturalmente capo a lui. Lui scelse Conte, poi Allegri (ma su consiglio di Moggi), lui avallò Sarri e ha puntato su Pirlo. Se si incomincia a riflettere sulle attitudini social dei teenager filippini o sulle preferenze mediatiche della generazione Z canadese forse manca il tempo di occuparsi efficacemente d’altro. Nulla potrà cancellare quei nove anni fantastici di dominio nazionale e di ritrovata (seppur già molto vacillante) personalità europea. Il cambio del brand, l’aver quadruplicato il fatturato, i 18 trofei sono suoi meriti personali enormi e storia della Juventus FC. Un dirigente illuminato però è anche colui che sa riconoscere i propri limiti o che si circondi di qualcuno che, in buona fede, glieli possa rappresentare. Mi sembra manchi questo ultimo passaggio e che la Juve abbia bisogno di essere difesa, tutelata e fatta ulteriormente crescere, ora. Da lui o chi per lui. Solo forza Juve.

 

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