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Eh ma allora il PD?

Tre sere fa, per la Juve, è terminata la lunghissima stagione 2019-2020 nel modo peggiore possibile: eliminata agli ottavi di Champions League dalla squadra che nel proprio campionato (non di primissimo livello, per usare un eufemismo) è arrivata settima e non giocava da marzo scorso (eccezion fatta per la finale di Supercoppa francese di qualche giorno prima).

Siamo all’indomani del weekend in cui Andrea Agnelli ha fatto saltare il banco (pardon, la panchina), esonerando Maurizio Sarri, e scegliendo in prima persona il nuovo tecnico bianconero: Andrea Pirlo.

Dunque, adesso possiamo affermarlo senza timore di smentita: la rivoluzione tanto agognata non c’è stata. L’arrivo dell’allenatore ex Napoli aveva acceso in moltissimi l’illusione – meglio, la certezza – che finalmente “…la Juve avrebbe giocato a calcio…”, che avremmo visto caterve di gol, che ogni partita sarebbe stata un tripudio di triangolazioni, scambi a due tocchi, ricchi premi e cotillons.

Nulla di tutto ciò si è visto in più di un anno di gestione Sarri (se non per qualche singolo sprazzo); viceversa, la Juve per la maggior parte della stagione è stata un “encefalogramma piatto”. Squadra lenta, prevedibile, a tratti semplicemente noiosa, salvata il più delle volte dalle individualità, Ronaldo e Dybala su tutti, e non dagli schemi, o presunti tali, del mister toscano.

Insomma, tutto quanto visto e rivisto negli ultimi diciotto mesi della gestione precedente, il cui esito nefasto – eliminazione ai quarti della Champions ad opera “…dei ragazzini dell’Ajax…” – aveva portato la dirigenza, nelle persone di Paratici e Nedved, al deciso cambio di rotta in panchina.

Il refrain di tutta la stagione è stato più o meno il seguente “eh ma non è colpa di Sarri”, “eh ma la dirigenza non gli ha preso i giocatori che voleva lui”, “eh ma la colpa è dei giocatori che non gli vanno dietro”.

“EH MA L’ANNO SCORSO ERA PEGGIO DI ADESSO”. Eccallà, la panacea di tutti i mali era il rifermento all’annata precedente, il paragone era subito servito su un piatto d’argento; tutto era sistemato, pensavano coloro che bramavano, senza poterlo ammettere per ovvie ragione, di vedere qualcosa che rappresentasse anche lontanamente il famigerato sarrismo, figura mitologica di cui non si hanno tracce nei libri di storia del calcio.

E INVECE NO, cantava qualche anno fa Laura Pausini.

Posto che fare paragoni è sempre sbagliato a priori, perché sono diverse le situazioni, le condizioni oggettive e soggettive, le persone, in quel “eh ma l’anno scorso” c’era un errore concettuale di fondo. Se proprio si voleva mettere a confronto le recenti gestioni tecniche bianconere, lo si doveva fare prendendo come parametro la prima annata di Sarri e la PRIMA (non l’ultima) stagione di Allegri. Il motivo è molto semplice: entrambi dovevano essere fotografati ai blocchi di partenza della propria avventura allo Stadium, quando, cioè, erano appena arrivati nel mondo Juve.

Anche la capra livornese, catapultato a Vinovo a ritiro iniziato (tra gli insulti e sputi dei tifosi) e, soprattutto, a mercato già praticamente fatto, era una scommessa. Anche in quel caso non furono presi giocatori “funzionali alle idee dell’allenatore”, anche in quel caso c’era gente a fine corsa (Pirlo, Tevez che pensava al Boca già da gennaio, Vidal con la valigia pronta).

Come dite? Ma parli ancora di Allegri?

No, mi limito semplicemente a evidenziare che le condizioni iniziali per i due allenatori erano pressoché identiche; molto diverse, purtroppo, sono state quelle di arrivo: double in Italia e finale europea (anche se non fa curriculum, cit.) per Max; scudetto e cocenti delusioni nelle coppe per Maurizio.

Il bilancio della stagione, a modestissimo parere di chi scrive, è da considerarsi negativo perché non può bastare solo il campionato (oppure adesso gli “scudettini” vanno più che bene?) per le aspettative che la dirigenza aveva creato ingaggiando Sarri, perché quest’ultimo avrebbe dovuto imprimere nel nostro DNA la concezione che “si può vincere anche in altri modi” (ipse dixit Martusciello), perché avremmo dovuto sfoderare “un gioco europeo” che c’avrebbe condotto a trionfare (o almeno ad andarci vicino) nella competizione continentale per eccellenza.

Ma così non è stato, peccato davvero.

Ciao Maurizio, tu sei già il passato; benvenuto Andrea, sei tu il nostro presente.

 

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