Se non ricordiamo non possiamo comprendere (Edward Morgan Forster).
Ho tratto lo spunto per questo breve ricordo, appunto, di trenta anni fa proprio da questa frase di uno scrittore britannico. Dove non è arrivata la memoria mi ha aiutato papà. Oltre solo gli archivi storici.
Ricordo alcuni dettagli del vecchio appartamento in affitto al primo piano del piccolo condominio in cui vivevamo, come la piastrellatura delle pareti in cucina, beige con un motivo a fiori color arancio, di quelle alla moda, ormai già passata allora, degli anni ’70. La tv, una Seleco a colori, era posizionata nella parete di fronte alla porta finestra che dava sul terrazzino esposto a ovest, cosicchè al tramonto non si vedeva una beata cippa. Altro che led full hd smart tv 3d (e chi più ne ha…) di oggi. In particolare durante la bella stagione, nelle ore in cui il sole scendeva verso l’orizzonte, le immagini proiettate sullo schermo risultavano pressochè invisibili, ridotte a una serie di ombre sfuggenti. Se dovevamo guardare qualcosa di interessante tra le 18 e le 20 eravamo costretti ad abbassare la tapparella e ad accendere la luce, come fosse notte. E quel giorno c’era qualcosa di molto importante per tutti gli juventini. Mio papà tornò prima dal lavoro, aveva già organizzato la serata in puro stile fantozziano: canotta d’obbligo, visto il caldo, frittatona di cipolle, familiare di birra gelata, tifo indiavolato e, naturalmente, il buon vecchio rutto libero. La mamma, anche se di fede interista (l’avreste mai detto?), trepidava assieme a noi pur dovendo badare al cucciolo arrivato da pochi mesi, il mio fratellino. Era tutto pronto, insomma.
L’anno precedente il papà mi portò per la prima volta allo stadio, a battesimo, per vedere la Coppa Italia. Di scena Cagliari-Juventus e fu ovviamente amore a prima vista. Il Sant’Elia era stipato in ogni ordine di posti, si parlò di circa 70.000 persone, la maggior parte delle quali in piedi, tutti appoggiati uno contro l’altro, pigiati come dentro a una scatola di sardine. Moltissimi erano gli juventini, accorsi da ogni angolo dell’isola per ammirare le gesta di quello squadrone che dominava in Italia e in Europa. La partita, a senso unico, finì 0-3 per la Juve, con gol di Briaschi, Boniek e Vignola, con il Trap che poteva schierare in campo una formazione zeppa di campioni: Tacconi, Caricola (sostituito poi dall’attuale tecnico della Lazio, Pioli) Cabrini, Bonini (al quale subentrò Cesare Prandelli), Favero, Gaetano Scirea, Briaschi (sostituito appunto da Vignola), Tardelli, Paolo Rossi, Platini, Boniek. Troppa grandezza perchè gli occhi di un bimbo non ne restassero letteralmente abbagliati. E in effetti, spirito di emulazione per il papà a parte, fu quello l’inizio della mia love story con la Juve. Stretto tra mille persone esultanti ad ammirare i lanci di “Le Roi” Michel, l’eleganza di Scirea, la classe e la velocità di Cabrini, Pablito sempre lì a gironzolare quasi innocuo nei pressi dell’area in attesa di punire il portiere avversario senza pietà, i fischi e l’energia di Trapattoni. Miti, eroi che segnarono una generazione intera.
Ma questa era LA partita. Ne parlavamo da un sacco di tempo. Avevamo sfiorato la Coppa, con la C maiuscola, due anni prima ad Atene contro l’Amburgo. Allora bastò la singola prodezza di un onesto operaio del calcio come Felix Magath per abbattere le certezze di un gruppo che sembrava scolpito nella roccia per solidità e cesellato nell’oro per doti tecniche. Una Coppa ancora mai vinta, che tutt’oggi resterebbe maledetta, non foss’altro per una magica notte romana di circa un decennio dopo. Ma questa è un’altra storia. Quell’anno la Juventus faticava in Serie A, distratta da questa maledettissima coppa, con l’ansia di doverla conquistare a tutti i costi e con i favori del pronostico.
Tutto ciò venne rovinato in un solo istante. La magia svanì subito quando mio padre, appresa la notizia, spense la TV e con dipinta in volto un’espressione dura mi portò a letto. Ricordo solo che pronunciò le parole “fine delle trasmissioni” quasi in automatico. Una frase che pronunciava tutte le sere quando era giunta l’ora di andare a nanna. Mi fece compagnia per un po’, giocando con me e raccontandomi una storia forse a lieto fine, a differenza di quella che si era appena consumata allo stadio Heysel di Bruxelles. Non guardammo la partita, sentimmo anche il condomino al piano di sotto esultare, urlare e strepitare a un certo punto. Ma non feci domande, anche se con l’egoismo ed il disincanto tipico dei bimbi avrei voluto sapere cosa stava accadendo in campo.
Venni a sapere solo successivamente quello che era realmente accaduto il 29 maggio 1985. Soprattutto venni a sapere che papà avrebbe voluto portarmi con lui a Bruxelles per assistere alla finale, ma all’ultimo momento i biglietti che in un primo tempo gli erano stati promessi gli vennero negati. Non so come chiamare questi eventi, se coincidenze, sliding doors, congiunzioni astrali favorevoli. Non credo molto nel fato ma ripercorrendo questo “film” viene da pensare che, forse, qualcuno o qualcosa aveva deciso per me un destino diverso. Non avrei dovuto assistere alla prima Coppa dei Campioni conquistata dalla mia squadra del cuore. Soprattutto non avrei dovuto prendere parte allo scempio.
Allora stavo per compiere 7 anni e in questo racconto sono stato aiutato nel ricordo proprio da chi quella tragedia la visse come me da lontano, raccontata dai cronisti, ovvero mio padre. Raramente ho rivisto quella tristezza nei suoi occhi, raramente ho sentito parole così amare come quelle che pronuncia quando si parla di quella maledetta coppa. Ma queste emozioni terribili, queste tragiche sensazioni, hanno fatto sì che amassi ancora di più il calcio e la Juve (qui la chiamiamo La Mamma) che entrassi quasi in simbiosi con i nostri colori. Fa male rivivere tutto ciò, pensare che avrei potuto esserci anche io, accanto al mio papà, proprio come Andrea Casula anche lui sardo che, lui sì, aveva avuto in dono per la promozione a scuola il biglietto dal proprio papà, Giovanni. Fa molto male ogni volta che viene insultata la memoria di quegli eventi. Il dolore per queste persone e per la loro storia non si cancella, specialmente perchè rivive ogni volta per i loro cari. Ecco perché questa storia, seppur triste e tragica, deve essere raccontata attraverso le testimonianze di chi era presente, per il significato profondo di quell’evento, tutto tranne che sportivo, per fare in modo che il tifo becero e violento venga sconfitto da chi va ad assistere ad una partita per godere dello spettacolo che solo quella sfera di cuoio che rotola sull’erba sa offrire. Ecco perchè, ogni volta che vado allo stadio, mi immagino bambino seduto accanto al mio papà, assieme ad Andrea e Giovanni, a perdere la voce per la nostra Juventus.
Ed ecco perchè è impotante che la memoria di questi ed altri eventi, seppur tragici, venga perpetrata: l’unico modo per evitare che tutto ciò si ripeta è ricordare, raccontare. Senza retorica, attraverso semplici testimonianze. Testimonianze di poco conto, come la mia, oppure testimonianze di chi quei momenti è stato costretto a viverli in prima persona, nella vigliacca “Curva Z”, come ad esempio l’amico Riccardo Gambelli, juventino e scrittore. Perchè la memoria è parte sostanziale di ciò che siamo e senza di essa perdiamo un po’ di noi stessi, trasformandoci in involucri più poveri e più vuoti.
Una menzione speciale va al sito Juworld.net grazie al quale sono riuscito a ricostruire diversi dettagli, come ad esempio la formazione della Juve nella partita di Coppa Italia Cagliari-Juventus del 26/8/1984. Un ringraziamento a Riccardo Gambelli per la toccante testimonianza di quei tragici eventi.