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Il (dis) valore della sconfitta

L’altro giorno ho letto questo articolo di Nino Ori e subito la mia mente è andata indietro all’altra Juve più perdente che io ricordi: la Juve di Maifredi. Contestualmente ho cominciato a rimuginare su questo pensiero: dal momento che dopo un periodo di cocenti delusioni – 9 anni allora, 6 anni recentemente – la Juventus ha inaugurato un ciclo molto vincente, può essere che il germe delle successive vittorie si annidasse nelle precedenti sconfitte? In sostanza, la sconfitta ha un qualche valore, degno di essere preso in considerazione ed eventualmente sfruttato? Cosa posso trarre di utile da una sconfitta? La sconfitta è in grado di insegnare qualcosa?

Non ho mai trovato nulla di educativo nella sconfitta. Perdere produce ansia, frustrazione, fastidio, rabbia. In alcuni casi, espone anche alla riprovazione da parte dell’ambiente circostante. Perdere è inutile. Anzi, perdere è peggio che inutile: è dannoso. Perdere aiuta a perdere. Una sconfitta dopo l’altra si finisce per soccombere definitivamente. Non ho mai visto nessuno ergersi glorioso, accusando sberloni e bastonate a destra e a manca. Le sconfitte fiaccano, incurvano. Le sconfitte ripetute generano rassegnazione.

No, non c’è nulla di educativo nella sconfitta, ed è per questo che quando sento i senatori della Juve o i suoi tifosi uscirsene con simili frasi, mi viene l’orticaria.

Sbaglio? Può darsi. Non ho alle spalle studi specifici che possano confortarmi in questa discussione, però sono uno sportivo. Ho praticato nuoto, basket, corsa, calcio per tanti anni, vissuti in campo e anche in panchina, e ho perso spesso: molto più di quanto avrei voluto. Ho sempre accettato la sconfitta, a maggior ragione quando l’avversario si era dimostrato molto più forte di me; me ne sono sempre fatto una ragione, l’ho sopportata, ma non sono mai riuscito a trovare in essa alcun valore. Anzi, tanto o poco che fosse, mi ha sempre richiesto un ulteriore sforzo mentale per “superarla” o “accettarla”; tutte energie che avrei potuto spendere meglio per vincere.

Allo stesso tempo, ho sempre trovato grande valore nella competizione, nella sfida. Competere, contro se stessi o contro gli altri, obbliga a confrontarsi, valutarsi, migliorarsi, a conoscere e riconoscere i propri limiti, a cercare di superarli. L’obiettivo? Vincere. Già, perché vincere è bello, piace a tutti, produce soddisfazione, fa star bene. Vincere aiuta a vincere perché genera positività.
Lo sapete che gli ottimisti sono molto più vincenti dei pessimisti? Se ci pensate bene, è del tutto logico. Immaginate un calciatore che va sul dischetto pensando: “tanto me lo para”; o un qualsiasi atleta che approccia la sua competizione convinto che perderà perché la sfiga, la pioggia, il fatturato, l’arbitro, le buche, un guasto o qualsiasi altra cosa interverrà per ostacolare la sua vittoria.

Che tu creda di farcela o di non farcela, avrai comunque ragione“, diceva Henry Ford.

Senza che ci addentriamo in discorsi troppo filosofici, perché gli allenatori sono così ossessionati dalla necessità di inculcare una “mentalità vincente” nei loro atleti, se la sconfitta fosse davvero istruttiva e formativa? Basterebbe perdere spesso per diventare fortissimi.

Invece no, non esistono squadre che perdono spesso e hanno una mentalità vincente. Vincere aiuta a vincere, perdere aiuta a perdere. Per cominciare a vincere, la condizione necessaria (ma non sufficiente) è creare una mentalità vincente.

Infatti, il problema di tutti gli allenatori è: come creo e mantengo nel tempo una mentalità vincente, dal momento che solo uno vince e tutti gli altri perdono? Come faccio, in atleti e squadre che perdono spesso, a invertire il trend, se perdere aiuta a perdere? Come rompo il cerchio? Come passo da “quello che ha perso” a “quello che ha vinto”?

Semplice. Combattendo per un centimetro. Massacrando di fatica noi stessi e tutti i compagni di squadra per un centimetro. Conquistando un centimetro alla volta, perché quando andremo a sommare tutti quei centimetri, il totale farà la differenza tra la vittoria e la sconfitta.

I primi centimetri che un atleta (ma oserei dire: ciascuno uomo) deve conquistare sono contro se stesso, contro i propri limiti e i propri difetti. E la sfida deve essere impostata proprio così: io contro il mio difetto, contro il mio limite, e vediamo chi vince.
Chi pratica sport individuali sa bene cosa intendo. Ma chiunque abbia cominciato una qualsiasi attività sportiva ha sperimentato questa situazione. Magari cominci correndo tanto per tenerti in forma, poi vuoi correre i 10.000 metri sotto l’ora, poi in 45 minuti, poi i km diventano 21 e l’obiettivo è almeno arrivare in fondo alla mezza maratona; poi la vuoi correre sotto le due ore, e poi in un’ora e mezza, e poi la mezza maratona diventa la maratona intera, e poi la maratona in meno di 4 ore, e poi ti trovi a correre la 100 km del Passatore senza neanche accorgertene.

Sapete come è stata pubblicizzata la 100 km del Passatore? “Il Passatore si può fare camminando? Certo! E’ una sfida con se stessi, è scoprire nuovi paesaggi, è superare i propri limiti… l’allenamento è la base, ma la vera prova è quella con la vostra testa!“. Niente classifica, niente tempi, niente gara: batti te stesso! Se ci riesci, hai vinto. Quando ci riesci, anche se sei arrivato seicentesimo, ti senti un vincitore. Osereste dare del “perdente” a uno che ha anche solo camminato per 100 km? Direi di no.

Vale anche nella vita, non solo nello sport. Pensate a un musicista, che prova e riprova per ore lo stesso passaggio, lo stesso accordo, perché vuole che sia perfetto: chi deve sconfiggere, se non se stesso e i propri difetti? Pensate forse che l’applauso del pubblico non sia la sua più grande vittoria, solo perché non ha un avversario in carne e ossa da battere?

Molti di voi ricorderanno Gianluca Zambrotta. Zambrotta cominciò la sua carriera nel ruolo di ala destra e per quel ruolo fu acquistato dalla Juventus. Solo che poi, in seguito a un infortunio, la Juventus acquistò in quello stesso ruolo Camoranesi. Zambrotta rischiava seriamente di finire in panchina. Fu così che Lippi gli propose di fare il terzino sinistro. Lo stesso Lippi raccontò in un’intervista che, da quel momento, Zambrotta cominciò a passare ore sul campo di allenamento, a calciare col sinistro contro il muro, per allenare quello che era il suo piede debole. In poco tempo divenne ambidestro e, per quanto io non abbia particolare simpatia per lui da quando fuggì dalla Juve nel 2006, per onestà intellettuale devo riconoscere che è stato uno dei più forti terzini sinistri della storia bianconera.

L’altro avversario da battere sono le difficoltà. Le difficoltà, contrariamente ai limiti e ai difetti, sono fuori da noi. Per acquisire una mentalità vincente bisogna adattarsi e superarle. Piove? Ci alleniamo al coperto. Fa troppo freddo? In palestra. Fa troppo caldo? Spostiamo l’allenamento alla sera, che fa più fresco. Il campo è fangoso? Giochiamo sul sintetico. Prendi i calci in allenamento? Ragazzi, giochiamo piano e mettete i parastinchi. Questo è “vincere” le difficoltà o fuggire dalle difficoltà?
Perché poi arriva la domenica, piove, fa freddo, il campo è una distesa di fango e gli avversari menano che è un piacere. Oppure giochi a mezzogiorno, fa troppo caldo e ti manca il fiato. Così succede che vai a Istanbul, il campo fa schifo, perdi e non trovi niente di meglio che dire: abbiamo perso perché il campo faceva schifo.

Tutti possono spiegare perché non si è riusciti a fare una cosa, pochi riescono a farla lo stesso: quelli che ci riescono sono quelli che hanno acquisito una mentalità vincente.

E qui ci sarebbe da aprire un capitolo sulla cultura degli alibi, su quanto il lamentarsi impedisca di acquisire una mentalità vincente, su quanto la scusa impedisca di riconoscere l’errore e blocchi il processo di apprendimento (se non riconosco l’esistenza dell’errore, del limite, del difetto, non posso lavorare per correggere una cosa che per me non esiste); ci sarebbe molto da dire sulla “motivazione” e sulla “determinazione”, vera benzina nel motore della mentalità vincente; ma siccome uno dei miei difetti è quello di essere prolisso e rischio di tenervi qui fino a domani, direi che posso soprassedere.

Da ultimo, c’è la vittoria contro gli avversari. E qui sorge il problema della qualità. Già, perché quando il livello della competizione sale, finisco per incontrare avversari che a loro volta hanno una mentalità vincente, che fanno tutte le cose che devo fare anch’io. Pensate a Cristiano Ronaldo, a quanta cura e determinazione mette per essere il migliore. Quando incontri squadre che hanno la tua stessa mentalità, alla fine la differenza la fanno la qualità e la tattica. Sulla qualità c’è poco da dire: correggendo i difetti miglioro la qualità, ma oltre un certo limite la qualità non è più migliorabile. Padoin, per quanto possa allenarsi e migliorare, non sarà mai Cristiano Ronaldo. Sulla tattica invece una cosa mi sento di dirla.

Cos’è la tattica? La tattica è il rapporto con l’avversario. A cosa serve? La tattica serve a nascondere i miei difetti e esaltare i miei punti di forza, evidenziando al contempo i difetti dell’avversario e limitandone i pregi. Ma se questa è la definizione di tattica, è evidente che non esiste una tattica (leggasi: sistema di gioco) che funzioni sempre, in tutte le occasioni: cambiando l’avversario, deve cambiare la tattica. Cambiando i miei giocatori, devo cambiare la tattica.

In alternativa, ho una tattica in mente e scelgo i giocatori funzionali a quella tattica. In questo caso però rimarrebbe solo il piccolissimo problema che, se per la mia squadra posso selezionare i giocatori funzionali alla tattica che ho in mente (non sempre: non tutti possono spendere e spandere per comprare tutto quello che serve), altrettanto non posso fare per la squadra avversaria. Con tutti i problemi che ne conseguono.

E anche qui ci sarebbe da aprire un altro capitolo infinito, sul perché alcuni allenatori intransigenti sulla tattica, tipo Sacchi e Guardiola, abbiano ottenuto risultati eccellenti in certi contesti ma fallimentari in altri, o perché questo tipo di allenatori faccia più fatica quando allena le Nazionali; siccome sto lavorando sul mio difetto della prolissità, non divaghiamo.

Per concludere, come hanno fatto la Juve di Maifredi e quella di Blanc, ad acquisire una mentalità vincente? Come hanno fatto a invertire il trend? Come hanno fatto a imparare dalle sconfitte? A tramutare le sconfitte in vittoria?

Semplice: non l’hanno fatto. Quelle Juventus sono state spazzate via e ricostruite cominciando dal Presidente, passando poi ai dirigenti, l’allenatore e infine cambiando la stragrande maggioranza dei giocatori. Avevano perso talmente tanto spesso che la sconfitta era diventata lo status mentale normale: non era più possibile resuscitarle.

Ricordo con orrore i pipponi sulla Juve “smile”, sul calcio champagne, sulla Juve che doveva piacere, sulla Juve che doveva fare di tutto, che si preoccupava di tutto, tranne che di vincere. In quell’organismo non c’era più la motivazione individuale e collettiva alla vittoria, non c’era più la determinazione a vincere contro ogni difficoltà: non c’era più la mentalità vincente. Erano squadre e dirigenze finite, morte dentro, da distruggere e ricostruire, e così è stato fatto.

Vincere, anche se vi sembrerà strano, non è un obiettivo: vincere è una conseguenza. L’obiettivo è migliorare, correggere i difetti, alzare l’asticella del limite, aumentare la qualità, scegliere la tattica migliore, creare motivazioni e nutrire la determinazione: raggiunti questi traguardi, la vittoria arriverà di conseguenza.

“Perdere” può essere un obiettivo? No. Perdere, così come vincere, è una conseguenza.

“Perdere” significa che non ho corretto un difetto, che non sono migliorato, che devo abbassare l’asticella perché l’ho messa a un livello irraggiungibile, che non ho abbastanza qualità. In che modo perdere mi potrebbe aiutare a vincere, ossia migliorare tutto questo? Non potrebbe.

“Perdere” migliora le motivazioni? No. Provo una cosa, mi riesce, mi convinco di essere in grado di farla, la rifaccio, mi riesce ancora e e via di seguito. Faccio una cosa, non mi riesce (perdo), di conseguenza mi convinco di non essere in grado di farla,rinuncio a ritentare.

La sconfitta migliora la determinazione? La sconfitta è nemica della determinazione. Sfido chiunque di voi a intraprendere una qualsiasi attività, sbattere contro continue “sconfitte” e non veder vacillare mai la determinazione. Se ci riuscite, beati voi.

Nella Juve di oggi ci sono tutti gli ingredienti per una squadra vincente? C’è la mentalità vincente?

In ordine sparso: Dybala che è migliorato molto nell’uso del piede destro; Douglas Costa che ha corretto evidenti limiti tattici; Allegri che parla di “alzare l’asticella, vincere contro se stessi” (davvero pensate che si sarebbero potuti motivare i giocatori della Juve dicendo loro: dimostrate di essere più forti del Napoli? Lo sanno anche i muri che sono più forti…) ad ogni piè sospinto; il cambio di “tattica” che ha consentito di non subire più gol; Higuain che ha imparato a difendere il pallone per far salire la squadra; le conferenze stampa di Allegri senza mai una lamentela; Marotta che compra la qualità (ah già, è un po’ che Marotta non è più un bersaglio; che vi succede, vi state rammollendo o state solo aspettando l’estate?); ad ogni modo, i sintomi dell’esistenza di questa fantomatica mentalità vincente ci sono tutti.

In che modo “perdere” migliorerebbe questa situazione? Rispondetevi da soli.

Ma la Juve, nonostante tutto questo, non vince la Champions League.

Credo che questo [aver acquisito questa “mentalità vincente ndr] sia parte del segreto per il quale quella Nazionale ha avuto continuità di vittorie… Il segreto principale è che non abbiamo trovato una squadra più forte di noi, perché se no… [ride ndr]. Se poi uno fa tutto questo e trova uno più forte, perde lo stesso.” (Julio Velasco).

In effetti, è inspiegabile aver perso contro Real e Barca.

 

PS. Qui, dopo aver parlato a lungo di “cultura della vittoria”, ci sarebbe da aprire il tema della “sconfitta” e del “saper perdere”, della “spiegazione come giustificazione”, della ricerca del “capro espiatorio”; ma c’è sempre il mio solito problema della prolissità…

PPS. E visto che siamo in tema di “vincere è l’unica cosa che conta”, prima che mi saltiate al collo armati di stucchevole buonismo, vi avviso che: “Quando io sento dire (e l’ho letto anche l’altro giorno in una dichiarazione del Presidente della Federazione del Calcio) che secondo il de Coubertin non è importante vincere, la cosa continua a sorprendermi moltissimo. Forse c’è stata una cattiva interpretazione degli storici o dei giornalisti e, in ogni caso, quella frase è superata, perché l’unica cosa che conta nello sport è vincere e non soltanto partecipare. Intanto io credo che si confondono le tematiche, perché a mio parere il de Coubertin pronunciò quella frase rivolgendosi soprattutto ai Paesi che dovevano partecipare alle Olimpiadi, senza riferimenti alle gare in sé. Ma questo è un problema di conoscenza, perché si intendeva dire “è importante che i Paesi partecipino all’Olimpiade”, perché all’origine nessuno voleva parteciparvi. Non è come ora che tutti vogliono partecipare. Quindi, importante era partecipare, nel senso che entrassero Paesi e atleti, per cui si era faticato tanto a preparare per fare una edizione dell’Olimpiade moderna.” (Julio Velasco).

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