Sabato mattina avevo twittato “no mi spiace, ma questa volta non scriverò COMUNQUE VADA GRAZIE ECC, perché io la voglio vincere”, talmente ero sicuro che l’avremmo esposta nel JMuseum. La realtà, ancora una volta, ci ha messo di fronte all’ennesima finale persa, all’ennesima immagine degli avversari che la alzano e noi col capo chino a guardare la medaglia d’argento, la medaglia degli eterni secondi. E così per la settima volta nella ultracentenaria storia bianconera.
Da dove nasceva la convinzione che questa volta sarebbe stata diversa? Dalle dichiarazioni dei giocatori i quali, all’indomani della semifinale e per le settimane seguenti, avevano ripetuto a più riprese “c’è una maggiore consapevolezza rispetto a Berlino, siamo più maturi”. Ci siamo cascati tutti, c’è poco da fare. Ecco perché le bastonate prese in campo, rectius nel secondo tempo, ci hanno rotto le ossa più di altre volte e adesso riprendersi sarà molto, molto complicato, volendo essere ottimisti.
La delusione e, perché no, anche la rabbia sono personalmente aumentate nell’ascoltare le parole di Buffon che candidamente ammetteva “alla prima difficoltà abbiamo svalvolato”; e la consapevolezza di cui si parlava prima della finale? E la maturità acquisita nel percorso di crescita internazionale? E lo straordinario lavoro mentale fatto da Allegri in questi anni? Tutto svanito in quarantacinque minuti.
Ho letto/sentito numerose opinioni in questi giorni sul tema “l’ossessione di noi tifosi per la Champions (lo confesso, per me lo è) l’abbiamo trasmessa alla squadra che l’ha subita”. Stupidaggine colossale, non crederò mai che un professionista trentanovenne, con oltre vent’anni di carriera alle spalle, possa essere condizionato (lui e gli altri vecchi della squadra) dagli umori dei tifosi.
Quindi, cosa pensare? Che quella consapevolezza sbandierata ai quattro venti era solo un’illusione? Oppure, era solo un modo per mascherare la tremarella che “covava sotto la cenere”? È stato un fallimento, senza tanti giri di parole. Uso appositamente un termine così forte perché se da sempre ci vantiamo (giustamente) del motto bonipertiano, “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”, va da sé che il medesimo debba valere sempre, non soltanto per il campionato o la coppa Italia.
Ecco perché non riesco a dire “GRAZIE LO STESSO”, perché sarei ipocrita; perché il senso di smarrimento che si prova è profondo. La nostra stagione, straordinaria fino al giorno precedente la partita di Cardiff, non sarà “macchiata” dalla sconfitta contro il Real, ma, parere personale, un po’ “ridimensionata” sì.
Che la Champions fosse l’obiettivo primario l’ho evinto dalle parole di Allegri nella conferenza pre-finale, in cui testualmente asseriva “le vittorie di queste settimane (alludendo a scudetto e coppa nazionale n.d.r.) ci sono servite da allenamento, non siamo venuti a Cardiff in vacanza; siamo venuti a prenderci la coppa”.
Più chiaro di così.
Non si pensi (già so che sarà così) che lo scrivente sia un voltagabbana, che sia un tifoso “occasionale” perché “è comodo esultare quando si vince” (per inciso, sono abbonato allo Stadium e ogni volta mi sorbisco venti ore di pullman fra andata e ritorno per seguire dal vivo la Vecchia Signora; anche nelle gelide sere d’inverno), ma la passione sfrenata non deve portare ad accettare sempre tutto. Stavolta no, è proprio impossibile.
Un tifoso avrà anche il diritto di incazzarsi, di restare deluso, di sentirsi tradito dai propri beniamini per una volta? Ecco, è lo stato d’animo che mi pervade da sabato notte.
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