

Quanti di noi sanno esattamente come si gestisce un caso di Covid? Siccome non lo sapevo neanch’io e mi prudeva la curiosità, armato dei potenti mezzi internet e della mia rubrica telefonica, ho fatto qualche ricerca.
Sostanzialmente ci sono 3 casi: “il caso sospetto“, “il positivo accertato” e “i contati stretti di un positivo accertato“.
Il “caso sospetto” è colui che manifesta sintomi compatibili con l’infezione Covid. Ad esempio, De Laurentiis quando aveva mangiato le cozze. A queste persone il medico curante prescrive il tampone e, in attesa di effettuare il tampone e ricevere l’esito, cito testualmente, “dovranno rimanere in isolamento; i loro famigliari conviventi e i contatti stretti non dovranno essere posti in isolamento domiciliare fiduciario in attesa dell’esito del tampone“.
Se il tampone è negativo, liberi tutti, altrimenti si passa alla situazione due, ossia la gestione di un “caso positivo accertato” e dei suoi “contatti stretti”.
L’esito positivo del tampone viene segnalato dal laboratorio che ha effettuato il prelievo alla ASL di competenza; la quale, a sua volta, lo segnala al medico curante del soggetto, per attivare il monitoraggio sanitario a distanza; lo segnala al Comune, che può disporre controlli a sorpresa per verificare che il positivo non violi la quarantena; quindi inizia la ricerca dei “contatti stretti”. La quarantena per il positivo, in questo caso, non ha scadenza: dura finché arrivano i famosi “due tamponi negativi effettuati a distanza di 24-48 ore“. Vi riassumo le raccomandazioni per gestire l’isolamento domiciliare: il positivo deve stare il più possibile da solo, mangiando e dormendo da solo, tenendo sempre la mascherina se deve condividere gli spazi con altri e, se possibile, usare un bagno dedicato. Insomma: meno contatti, meglio per tutti.
A questo punto, la notifica della positività raggiunge anche i contatti stretti (familiari, colleghi di lavoro, compagni di scuola, etc) che sono posti anch’essi immediatamente in quarantena.
La quarantena decorre dal giorno in cui è stato effettuato il tampone al positivo accertato e dura 14 giorni. Cito di nuovo testualmente: “in assenza di sintomi, verrà effettuato il test alla fine del periodo di sorveglianza (14 giorni)“. In buona sostanza, 14 giorni di quarantena sono obbligatori e, anche se non sviluppano sintomi, i “contatti stretti di un positivo accertato” fanno il tampone alla fine del periodo, per escludere un eventuale contagio asintomatico. In questo modo si dovrebbe riuscire a interrompere la catena dei contagi.
Trasportate ora questo protocollo standard nel calcio. Qui trovate un caso concreto, realmente verificatosi nel calcio dilettante. In sostanza, viene applicato il protocollo standard: al verificarsi di un caso positivo entro le 48 ore dallo svolgimento di una qualsiasi partita (tenete a mente queste “48 ore” ndr), tutti i “contatti stretti” di un “positivo accertato” finiscono in quarantena fiduciaria per 14 giorni. I loro nomi vengono segnalati ai medici di base e al Comune e comincia l’iter di cui sopra. Nel caso allegato: partita svolta sabato 19; tampone eseguito lunedì 21; comunicato a tutti i “contatti stretti” mercoledì 23 mattina; quarantena per tutti fino a sabato 3 ottobre compreso (14 giorni contati a partire da sabato 19).
Capite bene che, con un protocollo così stringente, sarebbe stato impossibile portare a termine un campionato di calcio.
Si è pensato quindi di copiare il protocollo degli altri Paesi europei (che, per inciso, al momento hanno ben più contagi di noi), adottato anche dalla UEFA, che prevede una situazione un po’ diversa: il positivo accertato finisce in isolamento domiciliare, come tutti i comuni “positivi accertati”, mentre tutti i “contatti stretti” di lavoro (calciatori, magazzinieri, fisioterapisti, etc), invece che a casa propria, vengono immediatamente quarantenati in una struttura ad hoc, preventivamente individuata di concerto con l’ASL competente, per evitare che possano portare il contagio all’esterno e possano continuare comunque ad allenarsi.
La cosiddetta “bolla”, di cui parlava il Presidente Agnelli.
Preciso che il termine “bolla” è molto ricorrente nei protocolli: ad esempio si definisce “bolla” una classe di studenti; si definisce “bolla” una squadra di calcio; si definisce “bolla” un reparto di un’industria; e così via. Per ogni caso seguono direttive specifiche, tutte finalizzate a evitare che le “bolle” possano entrare in contatto tra loro o, quanto meno, per minimizzare e gestire questi contatti.
I calciatori delle squadre di Serie A possono uscire dalla bolla dell’isolamento, ad esempio per andare a giocare una partita di calcio, previo tampone dall’esito negativo, effettuato non oltre le 48 ore precedenti (adesso portate a 24 ndr). Perché proprio “48 ore”? Perché si ritiene, a torto o a ragione, che 48 ore non siano sufficienti, in un soggetto negativo, per maturare una sufficiente carica virale da diventare positivo e anche contagioso. A maggior ragione in 24 ore. Questo in considerazione anche del fatto che il calcio si svolge all’aperto e i contatti sono sporadici e non prolungati. La responsabilità della gestione delle varie situazioni che si creano in una squadra di calcio è demandata al medico sociale, che valuta di volta in volta (ricorderete che insorsero quando si paventava una loro responsabilità addirittura “penale”).
Non sta a me discutere della validità scientifica di queste ipotesi (che sono state ritenute valide e adottate in tutta Europa, per altro), ma neanche alle ASL “unduettre” di Napoli (commissariata per camorra, tra l’altro) o al Napoli Calcio stesso.
Ora. Veniamo al caso concreto di Juve-Napoli.
Considerando la positività di De Laurentiis, a cui è seguito il nulla assoluto, con tanto di trasferta per partecipare all’assemblea di Lega; considerato che Zielinski è risultato positivo al tampone eseguito il 1 ottobre insieme al collaboratore Costi; considerato che alla positività di Zielinski ha fatto seguito quella di Elmas; considerando che non esisteva una struttura pronta per essere usata per l’isolamento fiduciario di squadra; considerato che i calciatori non hanno neanche rispettato l’isolamento individuale, tanto che continuavano ad andare avanti e indietro dal centro sportivo tranquillamente (e, pare, qualcuno è pure uscito a cena, come se nulla fosse); considerato tutto questo, posso io accettare serenamente la panzana che non sono venuti a Torino perché si preoccupano della salute pubblica?
Si preoccupano talmente tanto della salute pubblica che hanno violato ben due protocolli in una volta sola: quello sportivo e quello ordinario!!!
A fronte di questi comportamenti totalmente irresponsabili, bene ha fatto l’ASL “unduettre” di Napoli a richiamarli all’ordine.
Gli costa la sconfitta a tavolino?
E sticazzi? “Chi è causa del suo mal, pianga se stesso”, altro che “la Juve brutta e cattiva”.
Se a Napoli non sono capaci di fare una O col bicchiere, beh, cavoli loro: oltre un certo limite l’ignoranza e l’incapacità non possono essere più tollerate.
Finisco.
Non è la prima volta che una partita di calcio non viene giocata “causa ASL”: c’è il precedente di Palermo-Potenza (Serie C, girone C). Non voglio tediarvi sulle differenze tra i due casi (su internet si trova tutto) o sul fatto che il regolamento della Lega Pro prevede la possibilità di un rinvio mentre quello della Serie A no; semplicemente mi compiaccio che a Napoli si paragonino a società di serie C, perché è esattamente questo che sono: una società e una tifoseria di serie C.
Speriamo che prima o poi ci ritornino.
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