Siamo soliti dire, scimmiottando poveramente Borges, che il calciomercato è un ramo della letteratura fantastica. In pochi giorni di gennaio “fantastico” è divenuto propriamente aggettivo qualificativo: con un’azione coordinatissima ed efficace la Juve ha preso Vlahovic e Zakaria, ceduto in modo remunerativo Kukusevski e Bentancur, prenotato Gatti, forse impostato un discorso per Nandez, finalmente messo fine alla vicenda Ramsey, una fra le più opache e spiacevoli della storia non solo recente. Tutto ciò allorché ogni mossa sembrava preclusa dalla campagna di risanamento finanziario, avviata con tale determinazione e serietà che i più convinti aziendalisti, primo chi scrive, avevano superato in zelo i diretti responsabili, salendo sul trespolo a spiegare seriosamente a chi invocava rinforzi che avrebbero dovuto raccogliersi in operosa meditazione, come monaci trappisti, per affrontare stagioni di austerità e rigore: e – giuro – ne eravamo convinti! Quale non è stata, quindi, la nostra sorpresa permanente nella settimana conclusasi, di fatto, ieri notte, con le immagini del de cuius gallese deambulante verso una sospirata (da noi) firma.
Non avendo com’è noto nozioni calcistiche successive a Furino lasciamo volentieri ad amici più attrezzati le disamine tecnico-tattiche su ingressi, uscite e conseguenze in campo; ci soffermiamo qui su un aspetto al di sopra, o al di fuori (ma che poi in campo, speriamo, si ripercuoterà): dopo alcune stagioni di “continua indeterminatezza” la Juve ha deciso di riappropriarsi di se stessa e della sua identità.
- Il risultato sportivo torna a essere prioritario, da coniugare certo con la buona amministrazione, ma non più variabile da bilanciare con altri fattori più o meno misteriosi, e men che meno come cosa da cui – Dio ci scampi – “estraniarsi”;
- per questo motivo, si mette anche mano a un portafoglio che pareva sigillato, e si rimette nel mirino l’egemonia in Italia;
- alla buon’ora, viene fatta una valutazione realistica della rosa, constatandone, dopo troppo tempo, le inadeguatezze evidenti, e in modo chirurgico, mirato, andando su profili specifici, precisi, connotati, a scapito di ibridi irrisolti;
- di costoro, oltre al dato tecnico che verificheremo giocando, si è considerato quello caratteriale, riportando alla Continassa gente sì coi piedi buoni (di Vlahovic lo sappiamo, di Zakaria confidiamo) ma da battaglia, con fisico e temperamento, iniziando a congedare qualche bravo figliolo più portato ai balli delle debuttanti – e anche per il domani riprendendo a puntare su una certa working class calcistica: meglio un operaio specializzato di un giovane “giro, vedo ggente, faccio cose”
- questo filo di continuità che si riannoda va però anche in avanti, dando sostanza alla scelta dell’allenatore, che certo viene ulteriormente e giustamente responsabilizzato nel raggiungimento di obiettivi (posto Champions, quarti, coppa Italia) ora non più chimerici, ma anche stabilizzato da un mercato, se non su misura (non è una caratteristica della Casa) perlomeno in sintonia – magari con tempi lenti, a occhio Zakaria sembra il tipo di centrocampista che Allegri chiedeva invano dal 2017!
Continuità dunque anche in panchina, interrompendo la brancolante ricerca di “qualcosa di nuovo” che nessuno ha ancora capito cosa sia, ma che in tanti abbiamo capito dove porti.
Sarebbe, sì, il famigerato DNA; e sarebbe, in questo caso, il migliore e più duraturo acquisto di un mercato… a tre stelle.
Sappiamo che questo a taluni spiace: ricambiamo col longanesiano “piacere di dispiacere a chi si vuol far piacere”.
Bentornata, quindi, la Juventus che conoscevamo, quella in cui come diceva Giovanni Arpino “non ci si illude e non si dorme mai, dove giocare fa rima con lavorare, dove la vocazione ha il sigillo della professione”, e dove “molti uomini hanno imparato a essere tali”; quella squadra che lascia le chimere ad altri.
Perché ricordava il Trap che “Icaro volava, ma Icaro era un pirla”.
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