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Dieci anni fa, una linguaccia

Sì, lo so che siete tutti presi dalla partita di domani sera e non avete voglia di pensare ad altro. Non vi frega nulla nemmeno del festival di Sanremo, per dire…
Capisco il fascino della disfida che vede il popolo del sud contrapporsi all’oppressore sabaudo. L’ansia per la rivincita dei Borboni contro Cavour. La madre di tutte le partite, quella che tutti vorrebbero giocare e… ehm, nessuno vorrebbe arbitrare.

No, non ce la faccio, mi spiace. Per me, è una partita di calcio, e per giunta neanche decisiva. Una partita da tre punti, come le altre. Una partita di vertice, ma che non deciderà un bel nulla, comunque vada: a seconda di come andrà, saremo a +1, a -2 o a -5. Robetta. Robetta, per chi è abituato a giocarne 38 (e non due) più le coppe, in ogni stagione, di partite dell’anno, del secolo, del millennio.
Me ne sbatto delle fesserie dette da ex calciatori, ex allenatori, opinionisti, giornalisti (o pseudo-tali) di parte. Ma anche delle trasferte vietate e dei legali che fanno ridicoli ricorsi in merito. Me ne sbatto delle richieste di avere arbitri graditi (e dei relativi sondaggi), dei cori e degli striscioni antiquesto e antiquello. Anche se li ringrazio. Comunque vada, ricorderò questa come una tra le settimane più divertenti di sempre. Ognuno prepara la partita a modo suo. C’è chi preferisce stare zitto e lavorare, c’è chi si diletta nella lamentela preventiva, alla ricerca di possibili alibi. Poi, di solito vince chi ha lavorato meglio.
Alla fine, è solo calcio, è una partita, è solo una cazzo di partita di calcio…

Quindi, preferisco ricordare che, giusto dieci anni fa, il 12 febbraio 2006 a San Siro qualcuno col n.10 tirò fuori la lingua.

Certo, non era la prima volta che lo faceva (era comunque una delle prime), e lo fece molte altre volte in seguito. Ma quella volta fu speciale. Così come un anno prima, sempre alla Scala (?) del calcio, la sua rovesciata aveva messo sulla testa dell’infallibile David il pallone del ventottesimo scudetto; in quell’occasione la punizione che si insaccò sotto l’incrocio senza lasciare speranza a Julio Cesar certificò che anche per il ventinovesimo era solo questione di tempo. E lui fece la linguaccia.

Sono passati dieci anni: l’inferno, il purgatorio, il paradiso (o quasi).
Lo confesso, non sono mai stato un delpierista. Nel senso che non ho mai apprezzato coloro che nel 2012 sono caduti nella trappola mediatica (orchestrata allo scopo di generare risentimento verso Agnelli e la Juve, sfruttando l’amore dei tifosi verso un campione) e si sono resi protagonisti della spaccatura tra tifosi e società. E non mi è piaciuto leggere insulti e nefandezze, e ascoltare cori beceri e offensivi nei confronti del presidente, dell’allenatore, della stessa Juventus.
E non sono mai stato neanche un anti-delpierista. Già, perché esistono pure quelli, cosa credevate? Voi direte: di nemici, in quanto Juve, ne abbiamo già abbastanza. Tra istituzioni del calcio e rispettivi tribunali, dirigenti e giocatori di altre società, arbitri, giornalisti e opinionisti di tv e carta stampata, media, politici e compagnia infangante. Eh, certo, ma niente da fare. Nell’occasione (e non solo in quella), siamo riusciti ad alimentare altre divisioni all’interno della tifoseria, anziché dare prova di intelligenza e di maturità.

Non essendomi iscritto a nessuna delle due fazioni, il 13 maggio 2012 mi sono commosso anch’io al momento dell’uscita dal campo di Alex. A prescindere dai motivi, in quel momento era finita un’epoca. E nasceva comunque una nuova Juve, pronta ad un nuovo dominio pluriennale, anche senza la linguaccia di Del Piero. I nostri precedenti 19 anni di emozioni bianconere erano, sono e resteranno comunque indissolubilmente legati a lui. In quegli anni, ha contribuito come e più di tutti gli altri a farci godere, altroché.

Mio figlio, che di anni quel giorno ne aveva 23 e mezzo, la Juve senza quel numero 10 non l’aveva mai vista. Ricordo un sms col quale mi raggiunse mentre tornavo a casa la sera dopo Juve-Inter del 2012: “un capitano, c’è solo un capitano“. Sms poi ripetuto qualche settimana dopo, in occasione di Juve-Lazio. E poi, quando mi fece notare quel gesto di Del Piero, quella corsa di 60 metri per andare a dare il cinque a Gigi Buffon dopo l’errore in Juve-Lecce… roba da campioni veri, roba da uomini veri.
Gli spiegai che era normale finisse, che gli anni passano per tutti. Gli spiegai che, per questioni di età, avevo vissuto gli addii di tanti campioni: Haller, Salvadore, Bettega, Causio, Zoff, Gentile, Scirea, Platini, Zidane, Davids, Nedved, Trezeguet… e che ho sempre tifato Juve, e non un singolo giocatore, per quanto importante ed amato potesse essere. Che la Juve c’era prima di tutti i campioni elencati, e c’era stata anche dopo. E che, inevitabilmente, sarebbe stato così anche per Del Piero.
Ovvio che lo sapesse già pure lui, ma ora lo ha anche visto realizzarsi sul campo.

Ah già, domani sera c’è una partita. Sarebbe carino che segnasse uno col n.10, o anche uno con un altro numero, non importa, va bene uguale.
E che esultasse con una linguaccia. O anche una dab-dance. Mi accontento, dai.

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