

Oggi mi sento un po’ come Christopher Nolan, regista diventato famoso per il fatto che non rispetta la cronologia all’interno dei propri film: mi va di raccontare un po’ di fatti, ma non rispetterò l’ordine cronologico.
Qualche giorno fa, mentre accompagnavo mia figlia in una concessionaria, uno dei venditori ha notato la J sul berrettino indossato dal mio pargolo, e non si è potuto trattenere dal dire: “Ma come, tifi la Juve? La Juve no!”. Mio figlio stava per rispondere come fa ormai da tempo, dicendo che il calcio gli interessa relativamente e che adesso segue il basket (più che altro si è scocciato, a dieci anni, di dover giustificare una cosa che non va giustificata, e poi davvero segue più Fortnite che il calcio), ma mi sono intromesso.
Ho tolto gli occhiali da sole, come John Belushi in “The Blues Brothers”, ma a differenza dell’attore americano non ho fatto uno sguardo dolce, anzi. Ho detto: “Ai bambini no. Certe cose dille a un adulto, non a un bambino.” Devo essere stato abbastanza convincente, il tizio ha farfugliato due robe ed è tornato a vendere auto, come lo zio Antunello. Purtroppo, mi dispiace non essere stato presente quando una delle maestre di mio figlio qualche anno fa gli ha detto (poverino, sempre a lui) che “la Juve ruba”. Avrei facilmente convinto anche lei, quantomeno di tacere.
Qualche settimana fa un noto (ahimè) programma di giornalismo d’inchiesta (o di scherzi, o di gossip, vabbè, quello che è) ha provato, tramite un suo “giornalista” d’assalto a provare che la Juve nel presente campionato sia stata aiutata dagli arbitri. A fine servizio, traspariva chiaramente l’amarezza sul volto del “giornalista”, perché ha dovuto ammettere: “la Juve quest’anno ha subito più torti che favori”. Prima di continuare, una definizione.
Il termine “storytelling”, in italiano tradotto con “affabulazione”, significa usare i principi della retorica e della narratologia per inquadrare gli eventi della realtà e spiegarli. Razionalmente, la “narrazione” dovrebbe avvenire secondo una logica di senso comune. Ma non sempre è così. La parola “storytelling” diventò famosa nel 2008, quando uno scrittore francese, Christian Salmon, pubblicò “Storytelling. La fabbrica delle storie”, uno dei primi libri a descrivere lo strapotere dell’impianto narrativo nella politica e nella finanza, e quindi sulle nostre vite.
In pratica, con l’alimentazione continua e “ingrassante” dei social media, raccontare una storia, oggi, vuol dire convincere le persone. Mentre in passato la retorica era un’arte, adesso è diventata un mestiere. Più persone convinci, più clic ricevi, più soldi fai. Oppure prendi più voti, se sei un politico. Oppure consensi, se sei un amministratore locale. Non importa più che la storia sia vera. Importa che sia raccontata e data in pasto al pubblico giusto.
Due esempi. Uno lo rubo (da bravo juventino, ma rubando a un altro juventino è considerata “omeopatia”). Il buon Nino Ori una volta fece un esempio meraviglioso su “truffopoli”, quella che molti conoscono come “calciopoli”, la truffa, appunto, avvenuta nel 2006. Cito le sue parole:
“I fatti ci dicono che ci sono 20 automobili, tutte ugualmente in divieto di sosta. Di 13-14 di queste 20 auto ci sono le fotografie. Nessuna in posizione davvero pericolosa. Ci viene mostrata la foto di una di queste 13-14. Ci viene detto che era in posizione pericolosissima. E che c’era solo quell’auto parcheggiata lì. Al conducente viene ritirata la patente, al proprietario viene sequestrata l’auto. La si vorrebbe addirittura demolire per la grave infrazione commessa. Divieto di sosta.
In realtà, non è stata commessa alcuna infrazione grave. C’erano altre 12-13 auto nella stessa posizione, nessuno ha causato incidenti, nessuno era in posizione pericolosa. Questo dicono i fatti oggettivamente accertati.”
Questa è l’unica posizione che dovrebbe avere un tifoso juventino in merito (e anche qualche non juventino, se particolarmente amante della verità). Ma è successo che negli anni le cose siano state narrate, e abbiano quindi avuto uno “storytelling” differente. Tant’è vero che ancora oggi molti tifosi della Juventus non hanno capito un accidente, accusando la famiglia Agnelli di aver voluto far fuori Moggi e Giraudo e di aver approfittato della situazione.
A parte il fatto che se io sono a capo di un impero e ho due dipendenti indigesti, li licenzio, ci sono due aspetti che quel tifoso non sa (o non capisce, a volte le cose coincidono). La prima, è che la famiglia Agnelli, che per fortuna è a capo della Juventus dal 1923, proprio in quegli anni, per la precisione dal 2004 al 2010, non aveva in mano né il gruppo, né tantomeno la Juventus. Infatti, a causa del vuoto provocato dalle morti dell’Avvocato (gennaio 2003) e del Dottore (maggio 2004), l’accomandita di famiglia (Giovanni Agnelli e C. S.a.p.A.) era stata affidata temporaneamente a Gianluigi Gabetti, appunto, fino al 2010, anno in cui è diventato nuovo presidente John Elkann, perché, come aveva detto proprio l’Avvocato:
“È auspicabile che i futuri accomandatari siano ricercati nell’ambito della famiglia; naturalmente fra coloro delle nuove generazioni che si siano distinti per operosità e per talento e raccolgano la fiducia della maggior parte dei soci”
In quegli anni furono presidenti Franzo Grande Stevens (’03-’06), Giovanni Cobolli Gigli (’06-’09) e Jean-Claude Blanc (’09-’10), perché anche il compianto Vittorio Chiusano era passato a miglior vita nell’estate del 2003. La seconda cosa che i tifosi non capiscono è che la Juventus, dalla vicenda, ci ha rimesso molti, ma molti soldi. Era terza nella graduatoria economica stilata da Deloitte quell’anno, dopo Real Madrid e Barcellona, aveva una squadra pazzesca, con una ventina di giocatori di svariate nazionali. Solo nella finale dei Mondiali del 2006 ben 8 giocatori della Juventus erano in campo (Buffon, Cannavaro, Zambrotta, Thuram, Vieira, Camoranesi, Del Piero e Trezeguet), oltre ai vari Zidane e Inzaghi, ad esempio, che nella Juve ci avevano giocato. Per non parlare dello staff tecnico, con Lippi, Ferrara e Peruzzi, ad esempio.
Insomma, lo storytelling del 2006 ha colpito molti juventini e quasi la totalità degli antijuventini, incapaci di un vero giudizio critico. Ma perché si dice che “la Juve ruba”? E perché è così diffusa questa particolare narrazione? Diciamo innanzitutto che il “buon” Luca Palamara, intervistato, ha sgombrato il campo da dubbi, dichiarando:
“Di sicuro più una società è importante e più i riflettori vengono accesi su di lei.”
In parole povere ha detto che indagare sulla Juventus permette di avere le attenzioni della cronaca. Molti evidentemente la vedono come opportunità, anche per il discorso che facevo prima: più visibilità, più click, o più voti o più di quello che vi interessa. Se siete magistrato, magari un bel trasferimento in sede gradita, in una città sul mare, al caldo, e non nel freddo regno sabaudo. Su tutti gli episodi che ancora oggi tengono banco, anche a distanza di quarant’anni (il gol annullato a Turone, lo scontro Iuliano-Ronaldo, il gol di Muntari) ci sono amici juventini che ci hanno scritto articoli, libri e poesie, quindi vi rimando a loro.
Ma del primo ve ne voglio parlare qui. Perché è successo sessantuno anni fa, e ancora qualcuno ci vede la nascita della Juve “prepotente e arrogante” che ha dominato il calcio italiano da allora. Pur di non ammettere che la Juve ha dominato il calcio italiano negli ultimi sessant’anni perché ha lavorato meglio, sono capaci di dire qualunque cosa, anche che nel 1961 la Juve rubò lo scudetto alla squadra nerazzurra di Milano. Ma le cose non stanno così. L’ultima partita della stagione 1960-61, oltre a essere ricordata per l’addio al calcio giocato di Boniperti, e per l’esordio di un giovanissimo Sandro Mazzola, è famosa per un altro motivo.
In quella stagione i neroazzurri avevano affidato la panchina, dopo una girandola di tecnici, al semisconosciuto Helenio Herrera, che stupì un po’ tutti, andando in testa alla classifica sino al giro di boa. Nella seconda parte del campionato, però, la squadra ebbe una flessione e ne approfittò la Juventus, lesta a balzare in testa e a staccare i rivali. Al termine della giornata 27, 10ª di ritorno, la classifica vedeva la Juventus a 40 punti, il Milan a 37 e loro a 36 (la vittoria valeva due punti, nda). Il 16 aprile si giocò per la giornata successiva lo scontro diretto a casa della Juve: il Comunale era stracolmo, al punto che le tribune non bastavano a contenere tutti gli spettatori, molti dei quali sciamarono ai bordi del campo, sistemandosi sulla pista di atletica.
“La gente stava a pochi metri di distanza ma un pericolo vero e proprio non c’era”
disse all’epoca Aristide Guarneri, stopper nerazzurro e della Nazionale. Non la pensava allo stesso modo l’arbitro che alla mezz’ora sospese l’incontro, per poi sancirne la definitiva interruzione. La Federazione diede partita persa a tavolino alla Juve (0-2), come da regolamento. E sempre come previsto dal regolamento, la Juventus fece ricorso. Prima di arrivare all’epilogo, nelle giornate successive, la Juventus rimediò 3 vittorie, un pareggio e 2 sconfitte, per un totale di 7 punti. I neroazzurri, invece, 3 vittorie, 2 pareggi e 1 sconfitta, per un totale di 8 punti. Proprio quella sconfitta all’ultima giornata (il 2 a zero subito a Catania, giorno in cui nacque la famosa espressione “Clamoroso al Cibali”) precluse qualunque velleità della squadra meneghina, anche se si fosse dovuta rigiocare la partita con la Juventus.
Cosa che successe realmente, perché la Commissione d’Appello Federale aveva accolto il ricorso della Juventus, imponendo di rigiocare la partita. Dunque, prima della ripetizione della partita, la classifica era stata riscritta così: Juventus primo posto a 47 punti; Milan, secondo a 45 e loro terzo a 44. Vedete anche voi che anche con i due punti in più, la squadra nerazzurra sarebbe al massimo arrivata seconda. Il 10 giugno, a campionato concluso, la società milanese decise perciò, come aveva fatto la Pro Vercelli 50 anni prima proprio contro di loro, di schierare una formazione composta da soli giovani per protesta; con una differenza, che vi illustro brevemente.
La Pro Vercelli, nel 1910, aveva protestato presso la Federazione per un torto subito: era necessario uno spareggio per l’assegnazione del titolo di Campione d’Italia e le due società spareggianti, Pro Vercelli e Internazionale, non erano d’accordo sulla data della partita.
L’articolo 8 del regolamento federale stabiliva che ogni eventuale spareggio si sarebbe tenuto sul campo della società col miglior quoziente reti, quindi a Vercelli. Ma per stabilire la data si fece un pastrocchio; poiché debuttava la Nazionale italiana il 5 maggio, furono decise tre possibili date precedenti a quella: il 17 aprile, il 24 aprile e il 1° maggio.
Il Presidente della Pro Vercelli, Luigi Bozino, comunicò alla FIGC la sua opposizione alle prime due date e richiese la disputa della gara al 1° maggio per motivi organizzativi. L’Internazionale, però, manifestò il suo rifiuto a quella data.
Il Consiglio federale, che sospettava che il rinvio fosse stato chiesto dalla Pro Vercelli solo per consentire ai propri elementi un maggior riposo, decise di fissare la gara per il giorno 24 aprile e di programmare per il 1° maggio l’eventuale ripetizione da giocare in caso di pareggio.
Il presidente Bozino, dopo aver proposto all’Internazionale di disputare lo spareggio il 1° maggio, però a Milano, ottenendo un rifiuto annunciò che la Pro Vercelli avrebbe schierato la formazione giovanile, composta da ragazzini dagli undici ai quindici anni. Quindi portò avanti la protesta a proprio discapito, perdendo titolo, faccia e convocazioni dei propri tesserati per la nazionale di calcio.
Nel 1961, anche se la squadra di Milano avesse schierato i titolari, e avesse vinto, sarebbe comunque arrivata dietro la Juventus; quindi, la sua fu una protesta di sola facciata, senza rimetterci nulla. Eppure, su quella partita è stata costruita la leggenda che la Juve ruba. Quello che non hanno capito quei signori, è che la Juventus non ha bisogno di rubare. Né ha bisogno, come loro, che qualcuno li aiuti, per vincere qualcosa. La Juventus ha sempre subito torti, ma non ha avuto bisogno di giornali compiacenti o di federazioni amiche. Si pensi che il primo campionato assegnato a tavolino è stato quello del 1906, proprio contro la Juventus, perché la Federazione non le riconosceva il diritto di disputare l’incontro di ripetizione in campo neutro invece che a Milano (era contro il Milan, nda).
La Juventus è sempre stata più forte di tutto ciò, e quando ha vinto, è stato perché era la più forte, checché ne dicano gli altri. Perché alla Juventus, dopo una vittoria, si pensa già alla successiva. Alla Juve vincere non è importante. È l’unica cosa che conta.