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Liam Brady

Il tifo è una cosa strana. Ci sono quelli che tifano la propria squadra del cuore a prescindere da tutto e quelli che si appassionano al gioco o ai giocatori. Secondo me sono solo modi differenti di vivere la passione per lo sport più bello del mondo. Io raramente ho fatto parte della seconda categoria, anche se devo ammettere che qualcuno, dei campioni che hanno giocato con la maglia bianconera, mi è rimasto nel cuore più di altri.

Come racconto spesso, sono diventato tifoso della Juventus il 20 giugno 1979, guardando la finale di Coppa Italia vinta ai supplementari contro un coriaceo Palermo, che allora giocava in serie B.

In realtà, senza esserne consapevole, tifavo già Juventus: l’anno prima si erano giocati i Mondiali in Argentina e l’ossatura della Nazionale era composta per otto undicesimi da giocatori juventini (Zoff, Scirea, Gentile, Cuccureddu, Causio, Benetti, Tardelli e Bettega erano titolari, Cabrini tra le riserve).

Nel 1979 la Juve vinse solo la Coppa Italia, fu eliminata ai sedicesimi dalla Coppa dei Campioni e arrivò terza in Campionato, dopo il Milan di Rivera e il Perugia imbattuto guidato da Castagner. La stagione 1979-80 fu ancora più avara di trofei: superati dall’Internazionale in campionato, eliminati in semifinale ai rigori dal Torino in Coppa Italia e, sempre in semifinale, battuti in Coppa delle Coppe dall’Arsenal.

Quella stagione va ricordata anche per un paio di motivi, e per il primo dobbiamo fare un passo indietro.

Ai Mondiali del 1966, la Corea del Nord batté l’Italia 1-0. Si consumò la più grande “tragedia” della storia del calcio italiano (fino alla recente eliminazione dai mondiali per mano della Svezia). Non bastò il grave infortunio occorso a Bulgarelli, al 36′, che costrinse gli azzurri a giocare in 10 contro 11 per gran parte dell’incontro, a giustificare un’inattesa sconfitta: a segnare, al 42′ del primo tempo, fu Pak Doo Ik, di professione dentista.

L’eliminazione convinse la FIGC che i mali dell’Italia derivassero dalla massiccia presenza di stranieri in rosa. Si chiusero così le frontiere, potevano restare solo quelli già in rosa. Il risultato della chiusura delle frontiere fu un progressivo impoverimento della qualità del gioco e del numero di gol segnati. Per cercare di ridare linfa al campionato italiano, la FIGC decise che dal 1980 le squadre di Serie A avrebbero potuto tornare a ingaggiare giocatori stranieri (solo uno per squadra). Ben presto il limite fu portato a due giocatori stranieri, poi a tre, almeno fino alla “sentenza Bosman”.

Quell’anno successe anche dell’altro.

Alle 17:00 di domenica 23 marzo 1980, il calcio italiano finì in galera. Letteralmente. Per lo scandalo scommesse chiamato “Totonero”, vennero arrestati un po’ di giocatori al termine delle partite di quella giornata. Furono condannati, a pene diverse, dirigenti e calciatori. Sei anni di squalifica per Pellegrini, cinque per Cacciatori e Della Martira, quattro per Albertosi, tre e mezzo per Petrini, Savoldi, Giordano e Manfredonia, tre per Wilson e Zecchini, due per Paolo Rossi.

Come raccontavo, la Juve non aveva alzato nessun trofeo, e Boniperti e Trapattoni non erano sicuramente contenti di quel biennio; sapevano, però, di poter contare su un gruppo veramente forte. Per completare la squadra mancavano un centravanti vero, un bomber da area di rigore capace di sfruttare i cross del “Barone” Causio e le sponde e la grande intelligenza tattica di Bettega e un uomo con fosforo e visione di gioco da piazzare in cabina di regia.

La Juve scelse, per il primo ruolo, Paolo Rossi, che, però, come abbiamo detto, pur avendo avuto una parte decisamente minore e secondaria nella vicenda “Totonero”, fu squalificato per due anni. Non essendoci un piano B, Trapattoni decise che quell’anno gli attaccanti (un’ala e una seconda punta) da affiancare a Bettega sarebbero stati scelti tra Causio, Fanna e Marocchino.

La scelta del regista avvenne proprio durante la semifinale di Coppa delle Coppe. All’andata i bianconeri uscirono da Highbury con un ottimo 1 a 1. La partita di ritorno al Comunale avrebbe dovuto essere poco più di una formalità, ma non fu così. Il regista mancino dei “Gunners” fece impazzire il centrocampo della Juve. E a 3 minuti dalla fine un colpo di testa di Vaessen, su cross di Rix, qualificò l’Arsenal.

Ma quello che rimase impresso a Trapattoni fu l’eleganza di quel regista, tale William Brady da Dublino. Brady era in scadenza di contratto e Boniperti convinse sia l’Arsenal a non rinnovare, sia il giocatore a firmare il contratto: da quel momento sarebbe diventato il nuovo numero 10 bianconero.

I calciatori di scuola inglese, ad eccezione di Charles (che era gallese), non avevano mai fatto faville nel campionato italiano, ma Brady, oltre a essere irlandese (quindi differente dai cugini inglesi), era un calciatore fuori dal comune.

Figura 1- Brady in bianconero

Iniziò subito a studiare l’italiano e fin dai primi giorni di ritiro stupì tutti per la sua gentilezza, per la sua educazione e per la sua umiltà.

Il calcio inglese e il calcio italiano, allora molto più di ora, erano quasi due sport diversi. In Inghilterra si giocava un calcio solo di attacco, di velocità e poco sparagnino (e poco ragionato). In Italia invece, di contro a una maggiore organizzazione tattica e difensiva, i ritmi erano sicuramente più lenti. Brady però, dopo poche settimane di adattamento, dimostrò di trovarsi a suo agio. Rispetto all’Arsenal arretrò di qualche metro la sua posizione e diventò l’autentico metronomo delle manovre juventine.

Nella stagione 1980-81 la Juve vinse lo scudetto, il 19° della storia bianconera, e Brady chiuse con il bottino di 8 reti. L’anno successivo si tornò in Coppa dei Campioni, ma al secondo turno ci si arrese all’Anderlecht in una gara maledetta, che costò la stagione e la partecipazione ai mondiali di Spagna a Roberto Bettega; a sostituirlo, Giuseppe Galderisi, prodotto del vivaio juventino.

Quell’anno la cavalcata fu straordinaria: tripletta di Galderisi al Milan nella partita vinta al Comunale per 3-2 il 14 febbraio; vittoria in rimonta per 4-2 dopo un doppio svantaggio, grazie a Brady, Tardelli e una doppietta di Scirea (!) nel derby del 7 marzo; gol al debutto di Paolo Rossi, che nel frattempo aveva esaurito la squalifica, il 2 maggio, sul campo dell’Udinese.

La Fiorentina però non mollava.

Nel frattempo la federazione aveva autorizzato l’aumento degli stranieri in rosa, portandoli a due. La Juve aveva già comprato per la stagione successiva Zbigniew Boniek, attaccante polacco, protagonista con Grzegorz Lato degli anni d’oro della nazionale polacca, e che a Torino era ben noto, avendo calciato il rigore decisivo nella sfida dei sedicesimi di finale di Coppa UEFA del ‘79-‘80, che ci vide appunto eliminati dal Widzew Łódź. Quindi, con due stranieri, la Juve era al completo.

Ma (c’è sempre un ma, a questo punto), l’Avvocato si era innamorato di un giocatore in occasione dell’amichevole di Parigi tra Francia e Italia: Michel Platini. E la parola dell’Avvocato Agnelli era sempre tenuta in grande considerazione da Boniperti. Proprio il Presidente, il 1° maggio 1982, convocò Brady e gli comunicò che avrebbe dovuto lasciare la squadra. Si racconta che Brady uscì dalla sede bianconera con le lacrime agli occhi, e anche i compagni non presero bene la notizia, perché, come raccontavo prima, Liam si era fatto subito voler bene. Ma era, come ho detto più volte, una squadra di professionisti.

Domenica 16 maggio 1982, ultima giornata di campionato, Fiorentina e Juve appaiate in vetta a 44 punti: i viola a Cagliari, con i sardi in cerca dei punti salvezza; i bianconeri a Catanzaro, con i calabresi già salvi.

Ma mentre la Juve aveva sopperito alle varie assenze, quella di Bettega su tutti, con la forza del collettivo e con la scoperta di “Nanu” Galderisi, alla Fiorentina l’assenza di Antognoni per una buona parte del campionato aveva fiaccato le energie.

Orecchie alle radioline (allora si giocava, in contemporanea, sempre): sia a Cagliari sia a Catanzaro le partite non si sbloccavano e si andò al riposo sullo 0 a 0. Enrico Ameri e Sandro Ciotti si passavano la linea di continuo, attentando alle coronarie dei tifosi.

Al quindicesimo della ripresa chiede la linea Ciotti da Cagliari, Graziani ha segnato su cross di Antognoni. Ma il fallo di Bertoni su Corti fa annullare la rete all’arbitro.

Alla mezz’ora Ameri descrive un’azione di attacco della Juve; affondo di Marocchino sulla destra, cross a servire Paolo Rossi che colpisce di testa e centra il palo, il pallone torna in area sui piedi di Fanna, che tira a colpo sicuro: sulla linea il difensore Celestini si sostituisce al portiere e para con la mano sinistra un pallone destinato ad entrare. Rigore per la Juve!

L’Italia intera trattenne il fiato. Ovviamente per la testa di molti (anche juventini) passò l’idea che Brady, rigorista designato, avrebbe sbagliato apposta per vendicarsi del “tradimento”. Liam prese la rincorsa di tre passi, piatto aperto e palla alla destra di Zaninelli che invece si buttò dalla parte opposta.

Figura 2- Il rigore decisivo

Come disse lui stesso qualche anno dopo:

“Avevo due scelte, due possibilità: fare il professionista e calciare bene il rigore, oppure fare il bambino stupido e rifiutarmi di calciare o, peggio, sbagliare volutamente il tiro. Ho scelto di fare il professionista, ho tirato ed ho fatto goal”.

Le partite finirono così, la seconda stella fu appuntata sulle maglie bianconere e Brady lasciò la Juve.

Boniperti commentò qualche giorno dopo:

“Preso Platini, avevo un grosso problema. Ed un dispiacere enorme. Dirlo a Brady. Perché di stranieri ne erano consentiti soltanto due e noi avevamo già Boniek, preso in quegli stessi giorni. Brady, Boniek, Platini: uno era di troppo. Avessimo potuto tenerli tutti e tre, con Brady dietro a quei due, saremmo diventati la più grande squadra del mondo. Dopo avergli spiegato il problema, Liam pianse ed un po’ di magone venne anche a me. A fine stagione venni contattato da Paolo Mantovani, presidente della Sampdoria, per discutere la cessione del centrocampista irlandese. Il reingaggio di Liam l’ho fissato io. E Mantovani fu d’accordo su tutto”.

Brady giocò ancora cinque anni in Italia, due alla Samp, due all’Inter e una ad Ascoli, per poi chiudere la carriera al West Ham, lasciando ovunque un buon ricordo. Come ha scritto Alessandro Del Piero il giorno del suo addio alla Juve, “I giocatori passano, la Juventus rimane”.

Ma i calciatori come William Brady da Dublino sapranno sempre ricavarsi un posto nel nostro cuore da tifosi.

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