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L’inizio di un nuovo ciclo

Capita spesso, quando si parla di squadre di calcio, di leggere le parole “ciclo”, “progetto”, “lungo termine”. Mi permetto di dissentire sull’uso che (a volte) si fa di questi termini: il ciclo di una squadra è solo quello vincente, gli altri sono periodi di “partecipazione”. Faccio un esempio (reale): se una squadra ha giocato 88 edizioni su 89 dell’attuale serie A e ha vinto solo 3 scudetti, possiamo parlare di “ciclo” per quella squadra? (ok, mi avete scoperto, è la Roma…) Secondo me, no.

Chiarito questo, un’altra puntualizzazione: spesso si chiede agli allenatori di “osare”, di “rischiare”, di far giocare i giovani, anche se ancora non prontissimi per certi palcoscenici: sappiate che, se un allenatore “deve” vincere, deve vincere nell’immediato, non dopo tre anni. Altrimenti non avrebbero senso gli esoneri di allenatori stagione durante. Anzi, spessissimo vengono esonerati quelli delle squadre più scarse, e che spesso si affidano a giocatori “giovani”, con poca esperienza in serie A (per motivi economici), ma non mi pare che i presidenti li caccino per motivi di età media della squadra.

Detto questo, spesso abbiamo parlato di “fine” per quanto riguarda l’ultimo ciclo vincente della Juve, e c’è molta confusione nel capire quando il ciclo sia finito. Alcuni dicono dopo la sconfitta di Cardiff, altri con la “cacciata” di Marotta (o con quella di Allegri), altri per l’acquisto (secondo loro “avventato”, il famoso passo più lungo della gamba) di Cristiano Ronaldo, per altri dopo l’ultimo scudetto, e così via.

E soprattutto, visto che chi gestisce l’azienda Juventus (grazie a Dio) ha delle indubbie capacità manageriali e quindi (in teoria) dovrebbe capirci più di noi semplici tifosi, che cosa ha fatto la società per ovviare alla fine del ciclo?

Io un’idea me la sono fatta. E per spiegarla devo partire da lontano, più precisamente dagli anni ‘70. Nella stagione 1969-70 la novità più importante a livello societario fu l’ingresso di Giampiero Boniperti come Amministratore Delegato. La rosa era di livello discreto, alcuni giocatori erano a fine carriera e gli si affiancarono delle giovani promesse per l’avvicendamento.

Salvadore prese il posto di Castano, Morini di Bercellino, e così via. La ratio era semplice, nell’ultimo anno di un titolare, si comprava quello che lo avrebbe sostituito l’anno successivo, così da dare continuità alla squadra.

L’anno successivo si proseguì con quello che oggi si chiamerebbe “progetto”, ma che allora si chiamava buonsenso, con l’inserimento, ad esempio, di Bettega e Causio di ritorno da prestiti per “farsi le ossa”. Ma la ratio era sempre la medesima (ad esempio, venne preso Tancredi per avvicendare il “senatore” Anzolin in porta).

Nel 1971 Boniperti divenne presidente al posto di Catella e con i suoi collaboratori, in primis Allodi e Moggi, creò un sistema che per una decina di anni risultò perfetto: l’ossatura della squadra si manteneva, molti giovani erano in comproprietà o in prestito in giro presso squadre di medio-bassa classifica in serie A o di serie B, e i migliori rientravano alla casa madre. Oppure si scovava qualche fenomeno e si portava a Torino.

Fino all’86, più o meno, il giochino funzionò, poi diciamo che alcuni sostituti non furono all’altezza dei campioni uscenti. Complice la fine del ciclo, la Juve ricostruì. Ed era sulla buona strada, ma l’Avvocato si invaghì dell’idea di calcio champagne, e visto che alla fine rimasero solo le bollicine, la ricostruzione durò qualche anno in più.

Iniziò così il ciclo della triade e di Lippi, con un tourbillon di calciatori ancora maggiore, sia perché il calcio era cambiato, si giocavano più partite, i ritmi erano aumentati, e gli stranieri anche.

Ma anche in quel periodo si ragionava allo stesso modo, più o meno. Del Piero esplose e prese il posto di Baggio, che fu venduto, e così via. Tutto ciò continuò fino al 2006, quando, per cause di forza maggiore, la Juventus dovette ripartire quasi da zero. Con cinque titolari dell’ultima stagione di A, più qualche giovane promessa, si iniziò la scalata, fino al rientro della famiglia Agnelli al comando e all’arrivo del duo Marotta-Paratici, che iniziarono, mattone dopo mattone, anno dopo anno, a migliorare la rosa in tutti i ruoli.

Basta confrontare la rosa a disposizione di Del Neri, nel primo anno di Conte e nel secondo anno di Allegri per capire cosa intendo. Quelli che erano titolari cinque anni prima o non c’erano più o erano diventati panchinari, sostituiti nella titolarità da giocatori più forti.

Fino al 2018, il criterio fu più o meno lo stesso. Prendi uno forte che diventi titolare, e il titolare dell’anno precedente o lo vendi, o diventa panchinaro. A un certo punto, le cose sono diventate meno chiare, lo abbiamo detto spesso che la Juventus diceva una cosa e faceva la cosa opposta.

Una frase che mi colpì molto fu quella detta da Andrea Agnelli alla conferenza stampa di addio dopo aver esonerato Allegri (cosa mai vista prima, ci dobbiamo distinguere anche in questo). “Gestendo aziende – disse il Presidente – bisogna saper prendere le giuste decisioni nei momenti in cui vanno prese. Solo il futuro saprà dire se le scelte prese erano quelle corrette”.

Per tre anni non avevo capito quelle parole, ma l’altro giorno, mentre ero con Daniele, un formatore appassionato di grafici (è ingegnere), ma non di calcio, mi è arrivata una specie di folgorazione.

Provo a spiegarvela, ma necessita di una piccola parentesi, che c’entra poco con il calcio (ma non troppo poco) e quasi niente con la Juve (ma non troppo niente). Per farlo devo introdurre che cos’è la curva sigmoide.

Grazie ai miei studi di ingegneria meccanica, ho avuto a che fare molto con la matematica. E quando qualcuno si chiede “a che serve conoscere la matematica, all’atto pratico”, io una sonora risata me la faccio sempre.

Calma, adesso mi spiego. Nella mia “carriera” scolastica mi sono imbattuto spesso in due tipi di curve (agevolo primo disegno):

Non vi annoierò con formule e calcoli, state tranquilli, ma seguitemi ancora per un po’. Quelle curve, oltre ad essermi state molto utili per superare gli esami, le ho ritrovate spesso nel mio lavoro in logistica.

La prima che vi mostro è la cosiddetta “distribuzione normale” e serve a descrivere delle variabili che tendono a concentrarsi attorno a un singolo valore medio. È la curva della probabilità più usata nell’analisi statistica, perché descrive con discreta efficacia gran parte dei fenomeni naturali. Ad esempio, la distribuzione dell’età in una popolazione. Ma anche di altri valori, come per fare un altro esempio, la statura delle persone, che è distribuita in modo che molti sono vicini alla media, pochi ai livelli più alti e più bassi.

Le aziende, per esempio, usano questo tipo di curva per capire il grado di soddisfazione della clientela: fanno tot interviste, disegnano una “gaussiana” (si chiama anche così) e la sovrappongono a una come quella che ho disegnato io; se le curve coincidono, stanno lavorando bene, altrimenti devono apportare dei correttivi.

La seconda curva è detta “curva logistica” o “sigmoide” e studia altri fenomeni. Ogni organizzazione, ma anche ogni civiltà e ogni essere vivente seguono quella curva. Nascita, lenta crescita, stabilizzazione e, superato il punto massimo, il declino.

Ovviamente, anche le aziende hanno questo tipo di andamento (non tutte, ovvio) e a un certo punto dovranno fare qualcosa per ovviare al declino naturale. Come? Operando una serie di modifiche che facciano “ripartire” la curva.

Ultimo disegnino (giuro):

(ringrazio ancora l’amico Daniele per l’ispirazione e per il grafico, che gli ho rubato, da bravo juventino):

Come potete notare, questa curva serve a valutare come una performance vari nel tempo. Nella zona “A”, quando si è ancora in crescita, le aziende lungimiranti operano dei cambiamenti, prima che il declino inizi e non si abbia la forza di risalire dal punto “B”. Infatti, nel punto “B” le energie o il tempo a disposizione potrebbero non essere più sufficienti. La seconda curva è la fase di crescita, etc., etc., esattamente come la prima.

Ed è proprio quello che ha fatto il Presidente Andrea Agnelli quando, con una squadra fortissima in tutti i reparti, quasi perfetta (disputare due finali di Champions in tre anni non è usuale), ha pensato di dover effettuare il cambiamento (e lo disse “…cambiare prima di essere costretti a farlo.”). L’area “A” di quel grafico io la identifico con il periodo 2017-2019.

Infatti, in quegli anni la Juventus vinceva abbastanza agevolmente i trofei ai quali partecipava, aveva ricostruito la rosa, prendendo giocatori forti in ogni reparto (quell’anno Szczesny, Benatia, Matuidi, Bentancur, Douglas Costa e Bernardeschi), pronti ad avvicendare i senatori in uscita. La ricostruzione di Agnelli passò anche per il settore societario, via gli “anziani” Marotta e Mazzia, e largo ai “giovani”. E anche lo staff tecnico, con l’addio anticipato a Max Allegri l’anno dopo.

In quel periodo, però, qualcosa è andato storto. E non solo la pandemia. Forse il passo più lungo della gamba? Forse un errore di stima esagerata delle proprie capacità? Io credo sia stata semplice “hybris”.

Nell’antica Grecia la “hybris” (pronuncia IUBRIS) era la cosiddetta “tracotanza”, cioè l’orgoglio che, derivato dalla propria potenza o fortuna, si manifestava con un atteggiamento di ostinata sopravvalutazione delle proprie forze, e come tale veniva punito dagli dèi direttamente o attraverso la condanna delle istituzioni terrene.

Qualcuno è stato tracotante, e ce lo siamo detti spesso. Ma non c’è solo quello. C’è stata (questa volta per fortuna, nda) una sorta di resistenza ai cambiamenti, come se la seconda curva avesse difficoltà a partire. Come se l’inserimento di elementi esterni al DNA Juve provocasse il rigetto immediato degli elementi stessi.

Cos’è il DNA Juve? Semplice, è quello che ci ha portato ad essere la squadra di calcio più vincente della storia italiana, che in ogni decennio (dal 1925) ci ha fatto vincere almeno un trofeo, e che ci fa lottare, sudare e combattere per la vittoria. Che ci dice che nessuno regalerà mai niente, e per quello chi è nella Juve sa che dovrà dare sempre il duecento per cento. Il DNA Juve prevede che ci siano dirigenti capaci che assumono un allenatore vincente e che comprano giocatori forti. Sono gli altri che hanno sempre copiato la Juventus, non il contrario.

Abbiamo imboccato la seconda (ma in realtà è la settima, ottava) curva per ripartire a vincere. A che punto della curva siamo lo capiremo tra qualche anno. Pazienza. Torneremo, più forti di prima, e gli altri si pentiranno, ancora una volta, di non essersi goduti appieno le loro piccole e rare vittorie. E si pentiranno di averci, ancora una volta, sottovalutati nella nostra capacità di rinascere.

Perché vincere non è importante, è l’unica cosa che conta.

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