Un nome talmente comune da sembrare uno pseudonimo, come John Smith. Un fisico gracile, ragazzo interessante, un’aletta di buona tecnica, fece qualche apparizione in prima squadra in Coppa Italia ma l’ipotetica ascesa fu frenata dai menischi rotti, in un periodo di chirurgie ancora rudimentali come il truce giovanotto granata (mi pare si chiamasse Delle Donne) che inaugurò la serie.
Nel 1975 compare nella foto della prima squadra, ma è chiuso da Causio e Damiani, a ottobre è a Como senza combinare granché.
Va a Vicenza che sembra già un ei fu e trova Giambattista Fabbri che gli dice “ma tu sei un centravanti”: lo è. Capocannoniere in B, porta la Lanerossi in A dove arriva seconda, capocannoniere di nuovo, va in Nazionale e con Cabrini è la stella giovane di un’Italia bellissima e sfortunata.
Deve tornare a casa ma il parsimonioso Boniperti e l’infingardo Farina non si mettono d’accordo: si va alle buste (per i giovanotti: offerta alla cieca in busta chiusa, chi scrive la cifra più alta paga e si cucca il giocatore).
Farina vuol fare il colpo e spara alto confidando invano nella munificenza di Boniperti: 2 miliardi e 612 milioni, la valutazione totale supera i 5 e scatena la fucileria dei demagoghi sempre con l’arma carica, signora mia dove andremo a finire che c’è gente che muore di fame.
Il Vicenza tracolla sotto il peso, nel ’79 va in prestito a Perugia, ascolta senza neanche capire delle chiacchiere fra compagni, la domenica segna due gol che configurano un pareggio “provvidenziale”: è il “calcioscandalo”, i carabinieri in campo, la vendetta sociale contro il calcio dei “ricchi scemi” e di mr. 5 miliardi. Esce pulito dal penale ma l’ingiustizia sportiva è autonoma (dal diritto) e cerca colpevoli esemplari: Rossi è fra quelli, 3 anni di squalifica poi ridotti a due.
Il cinico Boniperti alla fine del primo passa da Farina con un assegno di tre miliardi e lo riporta a casa, nell’estate dell’81 è di nuovo nel poster, seduto in terra fra un tale Caputo della Primavera e Tavola.
Scontata la pena torna alla terzultima in una squadra senza Bettega e col fiato della viola sul collo, e al 48°, come se non avesse mai smesso, la butta dentro.
È il segnale che Enzo Bearzot aspettava; il Vecio l’aveva sentito spesso, gli aveva detto di eliminare quei rotolini ai fianchi, lo mette prima nel listone dei 40 poi in quello dei 22. L’Italia pallonara freme e sbava, la ggente vuole Pruzzo (e Beccalossi), Bearzot non ci sente, aspetta Bettega fino all’ultima chiamata della hostess poi si arrende e lo rimpiazza, per non fare ombra a Rossi, con Franco Selvaggi cui dice “metti in valigia quello che ti pare, purché non gli scarpini”.
Per tre partite, in una nazionale che singhiozza, Paolino appare uno stento fantasma, ancora più magro di quanto non sia in realtà, e per di più si becca di “fidanzato di Cabrini”; ruggiscono gli ospiti di Biscardi, sentenziano i giornali, si apprestano le forche.
Passiamo, c’è l’Argentina, la battiamo a sorpresa e chi vede la partita, non limitandosi a guardarla, registra un Rossi diverso, vivo, presente.
Poi arrivò il 5 luglio, lui e il Vecio sapevano che sarebbe arrivato, più ancora dell’8, dello stesso 11, quando spuntò inspiegabilmente da una scapola di Cabrini in tuffo, a incornare lui, che non si sa come e da quanto fosse lì, un pallone sotto misura.
La storia, per varie ragioni, durò poco di più (ma lasciò un bel segno alla Juve, sacrificandosi senza mettere il broncio per aiutare un Fenomeno) e finì prematuramente, allorché le ginocchia presentarono il conto. Ma che te ne fai della storia quando sei diventato leggenda?
E così il “nome anonimo” è diventato antonomasia, logo.
Per sempre tutto attaccato: Paolorossi.
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