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Pecoraro, Agnelli, la Juve e tutti noi…

Dal momento in cui sono iniziate a circolare le voci sul contenuto dell’audizione resa a marzo dal procuratore federale Giuseppe Pecoraro dinanzi alla Commissione Antimafia sui (presunti) rapporti-collegamenti Juve-ultras-‘ndrangheta, sui media (alcuni in particolare) si è scatenata la solita caccia alle streghe con conseguenti ipotesi di scenari apocalittici per la società di corso Galfer.

Inutile evidenziare che i nemici stavano già facendo voli pindarici pensando a una Farsopoli 2.0. Anche moltissimi tifosi juventini, a dire il vero, avevano già emesso l’infausta sentenza “ecco, ci fregano di nuovo e la proprietà non muoverà un dito anche questa volta”.

C’erano di mezzo (meglio, ci sarebbero state) alcune intercettazioni che inchiodavano senza appello Agnelli, reo di aver avuto e favorito frequentazioni con persone indiziate di appartenere alla criminalità organizzata.

Nell’audizione citata, secondo il pm della Federcalcio, la prova regina di tutto quanto era da rinvenirsi in una telefonata che avrebbe “inguaiato” (cit.) Andrea.

I protagonisti della vicenda, stavolta, avevano fatto i conti senza l’oste perché non avevano previsto che da Torino si sarebbe scatenata una decisa reazione alle sole illazioni di connivenza malavitosa.

Ricordiamo benissimo la conferenza stampa del massimo dirigente juventino durante la quale, vistosamente incaz…arrabbiato per il risibile deferimento ricevuto, annunciava battaglia su tutti i fronti e, con grossa delusione di coloro che ne avevano già prevista la decadenza, li “tranquillizzava” affermando che sarebbe rimasto al suo posto insieme a tutto il management.

Col passare delle settimane, grazie anche alle dichiarazioni del parlamentare Stefano Esposito, membro dell’Antimafia, prendeva sempre più corpo l’eventualità che l’intercettazione scandalosa, prova provata del connubio Juve-‘ndrangheta, in realtà, non esistesse.

Le prime conferme di ciò arrivavano dalla trascrizione di una telefonata inizialmente attribuita ad Andrea Agnelli, dalla quale, tra l’altro, veniva estratto soltanto uno stralcio, riportato pure erroneamente dagli organi di stampa (e quando mai).

La conversazione in parola, si è accertato, era avvenuta tra l’ex direttore marketing Francesco Calvo e il security manager Alessandro D’Angelo, colloquio in cui essi commentavano l’arresto dei fratelli Dominello, sottolineando la circostanza che avevano avuto contatti con il solo Rocco, persona incensurata.

La successione degli eventi non deve aver lasciato indifferenti i Commissari Antimafia che, per evidenti ragioni di chiarezza e di credibilità del proprio lavoro, convocavano ancora una volta il dottor Pecoraro nei giorni scorsi.

L’esito della nuova audizione è noto a tutti.

C’è stato un deciso dietrofront del procuratore che ha smentito di aver mai associato il nome di Agnelli alla criminalità organizzata; ha smentito l’esistenza della famigerata intercettazione, asserendo che l’equivoco sorto nelle settimane precedenti era frutto di un’interpretazione da lui fornita alla telefonata, indotto in “errore” da un presunto commento della stessa pervenuto dalla Procura di Torino.

Quest’ultima, dal canto suo, ha smentito tale versione, essendosi limitata a trasmettere gli atti all’Ufficio Federale come previsto dalla normativa. Pecoraro, a sua volta, smentiva di aver tirato in ballo i PM torinesi (tra un po’ smentirà pure di essere stato convocato dall’Antimafia?).

Farebbe già abbastanza ridere così, se non ci fosse il ballo l’onorabilità del presidente in prima persona, della sua famiglia e, di riflesso, della società che rappresenta.

Malgrado quanto emerso in Commissione lo scorso 5 aprile, il procuratore federale si è detto comunque convinto che ai piani alti di corso Galfer fossero consapevoli dell’appartenenza malavitosa dei propri interlocutori. Da cosa deriverebbe questo convincimento è presto detto: “non posso escluderlo”.

Due giorni fa si è appreso che pure i sostituti procuratori titolari dell’indagine “Alto Piemonte”, Paolo Toso e Monica Abbatecola, sono stati ascoltati dall’Antimafia, circostanza in cui escludevano che da parte di Agnelli o chi per lui vi fosse la cognizione di avere a che fare con presunti mafiosi.

Dunque, un altro duro colpo al castello accusatorio messo in piedi da Pecoraro al quale, stringi stringi, cosa rimane per poter chiedere la condanna dei dirigenti juventini nel procedimento sportivo che inizierà il prossimo 26 maggio?

Obbiettivamente molto poco: soltanto l’accertata cessione (si badi bene, vendita e non regalie) di un numero di biglietti superiore al consentito dalle norme federali. Stop. Non a caso, l’avvocato Chiappero, dopo la propria escussione a palazzo San Macuto, aveva lasciato intendere che vi fosse l’intenzione di patteggiare la pena per tale infrazione.

Di fronte a questo mutato scenario, non sarebbe fuori luogo, a sommesso avviso di chi scrive (senza con questo voler in alcun modo sindacare le scelte difensive altrui), incontrare il PM della Figc e concordare una riqualificazione delle incolpazioni, con annessa entità della multa da corrispondere per la vicenda biglietti, facendo “finta” che in Antimafia non sia successo nulla.

Se ci si trovasse di fronte a un muro invalicabile, bisognerebbe non riservarsi azioni legali promosse personalmente da Andrea Agnelli per le voci diffamatorie circolate sul suo conto in queste settimane, senza alcun timore di incorrere nella violazione della clausola compromissoria, perché si tratterebbe di un’azione intentata da un privato cittadino in quanto tale – non nella veste di dirigente di una società di calcio – nei confronti di altro privato cittadino e non nella qualità di procuratore federale.

Naturalmente, la nostra è solo un’ipotesi di scuola e auspichiamo che la situazione possa concludersi con il male minore per la Juve e per il suo grandissimo presidente che ci mette la faccia anche per tutelare milioni di tifosi.

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