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Ciao Pogba, perché te ne sei andato?

Da qualche anno, da tanti anni, il “campionato più bello del mondo” non è quello italiano. Non è un giudizio di tipo tecnico-tattico o sulla competitività del nostro massimo torneo. Non è nemmeno un riferimento agli antijuventini, secondo i quali questo fatto deve essere addebitato al predominio che la stessa Juventus, con sabauda arroganza, ha esercitato nelle ultime cinque stagioni rendendo scontato l’esito della Serie A. Piuttosto è una valutazione basata su una chiave di lettura di lungo periodo in cui, semmai, la Juve esce danneggiata dal contesto in cui opera. C’entra calciopoli, vero, ma c’entra soprattutto un sistema retrogrado, incapace di darsi regole certe e di “spendersi” sul mercato internazionale, come fanno in modo molto efficace i rivali europei.

Sono in molti, tra gli juventini, a domandarsi perché Pogba abbia lasciato la Juventus per andare al Manchester United. È indubbiamente una questione di vil denaro, va da sé, ma i soldi spiegano solo in parte questa scelta. Oltre agli aspetti economici andiamo a valutare, appunto, il contesto. Andiamo alla ricerca dei motivi che hanno indotto colui che viene ritenuto il giocatore potenzialmente più forte dei prossimi anni, a passare da una società che lotta per le prime posizioni in Europa a un’altra che nei tempi recenti ha faticato parecchio anche in campo nazionale, spendacciona e scriteriata, oltre che attualmente poco vincente. La stessa società che qualche anno fa lasciò partire a parametro zero proprio il giovanissimo Paul Labile Pogba.

Il Modello Inglese

Il “prodotto calcio” è un’industria in grado di spostare enormi quantitativi di soldi in tutto il mondo, per chi ne sa sfruttare le potenzialità. In questo gli inglesi, più di tutti, hanno fatto scuola: il calcio britannico è stato in grado di resettarsi a partire dai fatti di cronaca nera degli anni ’80 arrivando alla realizzazione di un meccanismo perfetto, concepito con l’obiettivo primario di ottimizzare gli introiti. Le tragedie dell’Heysel e di Hillsborough rappresentarono l’abisso più profondo, ma da esso emersero le nuove normative volute da Margaret Thatcher, come lo Sporting Events Act del 1985 (limitazioni sulla vendita di bevande alcoliche negli stadi), il Public Order Act del 1986 (introduzione di quello che in Italia viene denominato D.A.SPO.) e soprattutto il Football Spectators Act del 1989 (divieto di assistere a manifestazioni sportive, anche fuori dai confini inglesi, per i colpevoli di reati connessi alla violenza negli stadi).  Pietre miliari che permisero al movimento di sbarazzarsi del tifo violento e di contribuire alla formazione del cosiddetto Modello Inglese, soprattutto tramite la rigida applicazione delle leggi. In Gran Bretagna, inoltre, la forza pubblica viene affiancata dal servizio d’ordine privato: gli Steward si occupano esclusivamente di assicurarsi che ogni tifoso occupi il proprio posto a sedere e che durante la partita non si verifichi nessun tipo di intemperanza.

In materia di impianti la Gran Bretagna è storicamente avanti rispetto al resto d’Europa, visto che ogni club gioca nel proprio stadio. L’illuminata governance del calcio inglese colse la palla al balzo con l’assegnazione degli europei in casa nel 1996, procedendo all’adeguamento dei vecchi e poco sicuri impianti ai più moderni standard di comfort e sicurezza. A differenza di quanto accaduto con i  mondiali di Italia ’90 la manifestazione internazionale costituì un ulteriore volano per la “football economy”. Con l’entrata in scena delle grandi sponsorizzazioni e del modello americano per i naming-rights, in Inghilterra i club hanno costruito gli impianti di seconda generazione e attualmente stanno pensando agli stadi di terza generazione.

Gli inglesi hanno agito in anticipo, ma non è detto che il modello sia esportabile al 100%, né che sia il migliore possibile (il tifo inglese, a parte alcune eccezioni, viene considerato tra i più “tiepidi”). Dal punto di vista tecnico, poi, è evidente come la supremazia delle squadre inglesi in Europa “pre-squalifica” sia oramai un lontano ricordo: questo anche perché mentre da altre parti gli aspetti gestionali della rosa e il mercato vengono impostati e seguiti da professionisti del settore (Direttori Generali e Direttori Sportivi) in Inghilterra il tutto viene affidato all’allenatore, che ricopre il ruolo di “manager” con ampi poteri di gestione della campagna acquisti/cessioni.

Fatturati e social marketing

Nel frattempo il terreno di caccia, per le società di calcio, si è ampliato enormemente estendendosi a tutto il pianeta. Immaginate che il mercato dei diritti televisivi e delle sponsorizzazioni legate al calcio sia il mare e che i pesci siano le varie società. Il pescatore (lo sponsor) punterà a pescare il pesce più grosso, quindi la società con maggiore visibilità. Ecco, in questo mare le società italiane sono sparute sardine che nuotano in mezzo a un branco di grassi e succulenti salmoni. Secondo il rapporto Deloitte 2016 le società più ricche in termini di fatturato sono le due regine del calcio spagnolo, il Real Madrid (577 milioni di euro) e il Barcellona (560 milioni di euro), seguite dal Manchester United (519 milioni di euro). La Juventus, prima di gran lunga tra le italiane, si posiziona solo al decimo posto con 323,9 milioni di euro di fatturato (nel 2007 era seconda dietro il Real), mentre Milan (199,1) e Roma (180,4) si posizionano rispettivamente al 14° e al 16° posto.

I grandi introiti da diritti TV e sponsor derivano dall’appetibilità che un prodotto ha sul mercato internazionale: più si hanno regole certe, impianti moderni, assenza di violenza e corruzione, competitività a livello internazionale delle squadre che militano nella lega, maggiore sarà l’appeal che le società riusciranno a esercitare. In tal senso le spagnole fanno leva sul blasone ma anche su una pressione fiscale molto minore rispetto alle concorrenti: questa condotta, da parte di sette club iberici (tra cui Real e Barça), è stata giudicata irregolare dall’Unione Europea la quale ha ritenuto che tali agevolazioni debbano essere considerate aiuti di Stato.

Uno degli aspetti su cui le società calcistiche puntano decisamente per ottenere maggiore fidelizzazione e visibilità è la comunicazione. Una buona immagine contribuisce all’incremento dell’appeal nei confronti dei finanziatori e degli sponsor, i social network costituiscono un mezzo potentissimo per veicolare il proprio brand e aumentarne così il valore, contribuendo alla scalata di una “catena alimentare” in cui il cibo sono i soldi. Raffrontando il numero di utenti social (indice abbastanza attendibile di visibilità) delle principali squadre europee, possiamo notare come i dati rispecchino grossomodo l’andamento del fatturato e solo fino a un certo punto quello del blasone.

tifo-fatturato-trofei

Sono stati considerati gli account social “in lingua originale”. L’account Twitter in lingua inglese del Real Madrid, per fare un esempio, ha circa 6 milioni di followers. I trofei conteggiati sono i titoli nazionali, le coppe e le supercoppe nazionali e i trofei internazionali ufficiali.

L’analisi di questo insieme di dati ci fa capire che quanto più una società è conosciuta nel mondo tanta più attrattiva può esercitare nei confronti delle grandi sponsorizzazioni, di conseguenza dei grandi campioni. Più si è visibili più si guadagna. Sono state volutamente omesse realtà quali PSG e Manchester City, storicamente poco blasonate che nonostante ciò risultano tra le più ricche e seguite al mondo. Risultati ottenuti grazie all’aggressiva politica di “autosponsorizzazione” attuata da parte delle famiglie che le possiedono, ai fini dell’aggiramento del Financial Fair Play. Nel frattempo, il Barcellona ha annunciato ricavi record per l’esercizio 2015/2016, pari a circa 680 milioni di euro, sulla buona strada verso il miliardo di euro di fatturato entro il 2021 auspicato da Bartomeu.

Certamente anche il “nome”, quindi il blasone, costituisce un’attrattiva molto importante, ma non più fondamentale come nei decenni scorsi. Pogba va allo United ANCHE perché  i Red Devils sono una società dello stesso livello della Juve, a livello di trofei vinti, quindi storicamente una delle più forti squadre del mondo. MA SOPRATTUTTO ci va perché potrà esprimersi in un contesto ideale e guadagnare cifre spropositate. Pogba va da chi potenzialmente può garantirgli un progetto pluriennale, tecnicamente ed economicamente molto aggressivo per non dire devastante, in cui lui – Pogba – è la superstar assoluta; Pogba, ultimo ma non ultimo, va da chi gli garantisce di essere il più pagato, il che potrebbe essere spostato al primo posto nelle motivazioni del trasferimento.

In questo momento Pogba non va al Real o al Barcellona perché lì non sarebbe il numero uno e anche perché Real e Barcellona, pur potentissime, devono garantire un trattamento principesco già a diversi calciatori (CR7, Bale, James Rodriguez, Messi, Neymar, Suarez…) e sono per altro coperte molto bene nel ruolo di “mezzala fantasiosa”. Le ragioni sportive, però, passano in secondo piano: il giocatore-azienda Pogba è convinto, oltre che dalle prospettive di guadagno, dal fatto che andrà a giocare in un ambiente in cui ai tifosi non interesserà sapere quale arbitro verrà designato, o almeno non sarà un aspetto preponderante rispetto ad altri. In un calcio senza violenza, giocato in stadi bellissimi e all’avanguardia. Tutti. Un calcio in cui gli scandali vengono gestiti nel migliore dei modi dagli organi competenti (non è che in Inghilterra non ce ne siano, badate bene), in cui le regole valgono e vengono applicate per tutti.

Insomma Pogba, oltre alla spinta del proprio procuratore, ha come minimo qualche stimolo per essere invogliato alla partenza.  Il tutto ha ben poco di umano e molto di affaristico, sia chiaro. Ma il calcio, nel bene o nel male, si è evoluto velocemente e solo chi è in grado di gestirsi in maniera efficiente a livello economico può riuscire a emergere anche a livello sportivo.

Confronto globale

Di tanto in tanto viene riproposta l’idea di una “Superlega Europea” composta dalle squadre più blasonate e potenti del Vecchio Continente, strutturata sul modello dell’NBA. Il basket viene preso ad esempio probabilmente perché è uno degli sport pro americani che viene praticato anche in Europa, ma non è certamente lo sport più ricco. Ma la Superlega Europea sembra una chimera difficilmente ipotizzabile, innanzitutto poiché le diverse piattaforme fiscali entro cui operano i club non consentirebbero pari opportunità per tutti di poter competere allo stesso livello. Si potrebbe però cominciare con la rigorosa applicazione del FFP, possibilmente con l’introduzione di un tetto salariale entro cui opererebbero tutte le società partecipanti alla Champions League.

La lega pro con il fatturato più alto a livello mondiale è la NFL con l’equivalente di 7,8 MILIARDI DI EURO (!). Il fatto che il football americano venga praticato quasi esclusivamente negli USA, primo mercato commerciale del mondo, la dice lunga sulla capacità dei manager d’oltreoceano di generare profitti dall’industria dello sport. Al secondo posto, manco a dirlo, si piazza la MLB (baseball) con 5,9 miliardi di Euro seguita, indovinate un po’, dalla Premier League (3,9 miliardi di euro). Gli sport indoor come NBA (3,4 miliardi) ed NHL (2,6 miliardi) arrivano subito dopo. Le leghe pro americane basano il loro successo sull’equilibrio e sull’incertezza dell’esito finale, garantiti da un salary cap identico per tutti, con la possibilità per le squadre tecnicamente inferiori di pescare i talenti migliori tramite i draft. Oltre a ciò viene dato un peso molto importante agli introiti da stadio. Proprio come avviene in Premier League, non per nulla l’unica lega non americana a entrare nelle prime posizioni per introiti generati.

Un interessante reportage di CF indica come i ricavi da maglia, intesi come sommatoria di sponsor tecnico e main sponsor, costituiscano una parte preponderante degli introiti di un club. In testa a questa particolare classifica si posiziona, ancora, Il Maledetto United con la bellezza di 154 milioni di euro annui. Basti pensare che i 40 milioni incamerati annualmente dalla Juventus (Adidas+Jeep) coprono la quota di “potenza di fuoco” del solo Higuaín e poco altro. Secondo quanto riportato recentemente dal quotidiano inglese “The Sun” la maglia più venduta al mondo è quella del Manchester United, seguita dal Barcellona e dal Real. I calciatori che “vendono” più maglie sono Messi e Cristiano Ronaldo. Martial dello United si piazza addirittura al terzo posto. Voi direte: MARTIAL? E Suarez? Lewandowski? Ibrahimovic? Bale? Adidas riversa vagonate d’oro nelle casse del Manchester United, con un contratto pari a 941 milioni di euro in 10 anni (94 milioni all’anno). Per fare un paragone la sponsorizzazione, sempre Adidas, della Juventus ammonta a 139,5 milioni per 6 anni (23,25 milioni all’anno).

“Povera” Italia

Il calcio globale, insomma, viaggia a velocità tripla rispetto al calcio italiano. Questo perché il calcio italiano è ancora focalizzato su problematiche di natura politica che potremmo definire anacronistiche, perché è governato da dirigenti con visione giurassica dello sport, incancreniti e ancorati alla logica dell’orticello (mi autocito), impegnati nella distribuzione delle poltrone, interessati al profitto personale più che al bene comune. Si fanno contrattazioni per i diritti TV “al ribasso” mentre in Premier si negozia un nuovo contratto da 7 miliardi di euro, si pensa più a cercare l’advisor “giusto” che a quanti soldi quest’ultimo possa portare in cassa. Si pensa a spartire in parti uguali (non è un modo di dire) i fondi per la progettualità delle leghe minori allo scopo di allargare la propria base elettorale.

Grottesca e sintomatica la vicenda che ha impedito a Beppe Marotta di ricorrere alla giustizia ordinaria nei confronti del numero due della federcalcio Lotito, che lo aveva beceramente insultato – “Con un occhio gioca a biliardo, con l’altro segna i punti” – a margine di un’assemblea di Lega. La giustizia sportiva sanzionò il presidente della Lazio con un’ammenda di 10.000 euro, in modo che un’eventuale denuncia da parte dell’AD juventino avrebbe costituito una violazione della clausola compromissoria, con conseguenti ripercussioni sul piano sportivo per la Juventus.

Ma non finisce qui. Risale a pochi giorni fa la notizia di una denuncia al presidente della FIGC da parte dell’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti. Secondo l’ex dirigente della squadra lombarda, Tavecchio avrebbe falsificato un atto ufficiale proprio per consentire a Lotito di bypassare la clausola compromissoria e poter denunciare penalmente il DG dell’Ischia Pino Iodice, che aveva diffuso una telefonata privata con il n.1 della Lazio, quella famosa in cui si augurava che Carpi e Frosinone non venissero promosse in Serie A.

Che dire, infine, del ricorso pendente presso il TAR del Lazio da parte della Juventus nei confronti della stessa federazione, con richiesta di risarcimento per la disparità di trattamento subita nella vicenda di calciopoli e la mancata revoca dello scudetto 2006 all’Inter? L’ennesimo capitolo di una vicenda ancora lontana dalla conclusione, prima della quale la Juventus potrebbe ancora ricorrere all’articolo 39 del CGS  (revocazione e revisione del processo sportivo) in caso emergano nuovi elementi in merito.

Quale futuro per la Juve? Strategie e prospettive

Abbiamo visto, dunque, che il sistema in cui si opera è fondamentale per sfruttare tutto il potenziale a propria disposizione. Per la Juventus il sistema calcio italiano comincia a essere come uno stagno troppo piccolo per un pesce troppo grosso. La società presa per mano da Andrea Agnelli da ormai più di un lustro ha più che raddoppiato il fatturato e ha scavato un solco tra sé e le rivali in campo nazionale. Per ammissione dello stesso presidente bianconero i “limiti strutturali” del sistema Italia rappresentano un fattore castrante per un club che ha ambizioni di crescita come la Juventus. Detto in soldoni, per quanto concerne gli aspetti legati all’Italia, di più non si può fare. La Juventus  è riuscita a spingersi oltre il proprio bacino d’utenza grazie ad anni di vittorie, ma sul mercato globale gioca con un handicap importante rispetto ai propri rivali (sportivi) e concorrenti (commerciali).

Mentre il resto d’Europa profondeva le proprie energie nell’intento di sviluppare modelli gestionali efficienti, la Juventus ha dovuto risolvere due ordini di problematiche: uscire dalla profonda crisi tecnica post calciopoli e cercare di creare un proprio modello vincente, che esulasse dal contesto italiano. L’operazione è riuscita perfettamente: Agnelli ha delegato le competenze a manager capaci, ha indicato la strada con un piano industriale ambizioso ma realizzabile e poi realizzato,  ha proseguito e potenziato una politica di pesanti investimenti sulle strutture, ha puntato a una forte valorizzazione del marchio a livello nazionale ed internazionale.

A livello tecnico si è affidato alle sapienti mani di Beppe Marotta, Fabio Paratici e Pavel Nedved. Questa dirigenza ha realizzato il realizzabile in campo italiano, e in campo europeo la Juve è tornata a farsi notare, scalando addirittura uno Zoncolan come il percorso verso la finale di Champions. La Juventus è l’unica società italiana in grado di immettere liquidità – tanta – nel calciomercato interno, dato che per i cartellini dei soli Pjanic e Higuaín ha speso oltre 120 milioni di euro nella sessione corrente. Dopo aver stabilito il record per un singolo trasferimento (90 milioni) la nuova frontiera sarà rappresentata dal riuscire a trattenere i talenti alla Pogba con stipendi allineati a quelli dei top club europei: inevitabilmente già dopo questa sessione di mercato verrà rivista la politica degli ingaggi con un netto rialzo del tetto salariale.

In tal senso l’appeal della Juve è aumentato così come la visibilità, anche grazie a un’ottima strategia di comunicazione e di social marketing nonché all’acquisto di calciatori di caratura internazionale: da Pirlo a Tevez, da Mandzukic a Khedira, da Dani Alves a Higuaín alcuni dei quali hanno nei diversi social network, ognuno, più followers della Juventus.

Fuori dal campo la Juventus sta costruendo un impero: dopo il centro sportivo a Vinovo, lo Stadiumil museo, il J|College e il J Medical, si appresta a inaugurare nel 2017 le prime strutture alla Continassa. Nel giro di pochi mesi verrà completato l’universo juventino che potremmo racchiudere in tre compendi interconnessi tra loro:

  • Juventus Stadium: Stadio, J|Museum, J|Medical, Centro Commerciale;
  • J|Village (Continassa): Sede sociale, Training Center prima squadra, Media Centre, Hotel, Centro Commerciale, Scuola internazionale;
  • Vinovo: centro sportivo giovanili, J|College.

Forte di questa strategia la Juve si propone in modo aggressivo sul mercato globale, con idee innovative (per l’Italia) in materia di sponsorizzazioni. Il contratto con Adidas prevede che il licensing e il  merchandising vengano gestiti in maniera autonoma dalla Juventus, la quale ha per contro rinunciato a circa 6 milioni di euro annui di quota fissa. Evidentemente la Juve vuole provare a “vendersi” con più forza di quanto non avrebbe interesse a fare Adidas. A tal proposito secondo alcune indiscrezioni i ricavi da merchandising nei primi 9 mesi di “autogestione” ammonterebbero a circa 10 milioni di euro. Gli accordi con il colosso tedesco dell’abbigliamento sportivo prevedono, inoltre, che in ogni negozio in cui in vendita c’è una maglia del Real Madrid, ci sia anche una maglia della Juventus.

La Juventus ha recentemente siglato un nuovo contratto esclusivamente per il mercato messicano con Tecate (gruppo Heineken), nota marca di birra nel centroamerica, andando così a sottoscrivere la prima “sponsorizzazione regionale” per il club bianconero. Questo tipo di accordi consente alle società di accaparrarsi sponsorizzazioni di importo generalmente inferiore alla media, con lo scopo principale di legare il proprio nome a brand importanti nei rispettivi Paesi ottenendo così visibilità e discrete fette di mercato.

Infine l’istituzione delle Juventus Legends, presiedute da David Trezeguet e di cui fanno parte diversi ex calciatori della Juventus, ha l’intento di promuovere il marchio in giro per il mondo attraverso manifestazioni ed eventi a tema.

Capite bene come tutto ciò sia prepotentemente in discrepanza con quanto accade quasi ovunque nel resto d’Italia. Mentre gli altri restavano in attesa di fantomatiche leggi sugli stadi noi costruivamo il nostro; mentre gli altri starnazzavano nei pollai di Lega e Federazione per ottenere una poltrona in più, noi diventavamo sempre più “ingiocabili”, soffiandogli i Pirlo a parametro zero; mentre gli altri si scannavano per un rigore dubbio e per le linee storte, noi gettavamo le basi per un dominio incontrastato, semplicemente facendo quello che dovrebbero fare tutti: programmare e lavorare per ottenere gli obiettivi prefissati. Nonostante tutti pensassero di averci cancellati dalla faccia della terra, non più tardi di 10 anni or sono.

La Juventus ha dimostrato di sapersi muovere come una sorta di corpo estraneo in un meccanismo obsoleto come quello del calcio italiano. L’ultimo mercato è la chiara testimonianza della definitiva rottura con una dimensione che non ci appartiene più.

La Juventus ha indicato la luna, ma il calcio italiano era troppo impegnato a guardare il dito.

Si ringrazia Nino Ori per la preziosa collaborazione.

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