

Sono trascorsi più di due giorni dalla partita contro il Bayern Monaco. Più di 48 lunghissime ore. E ancora non è passata quella sensazione di amarezza, quel senso di ingiustizia. Sono fermamente convinta che, camminando per strada, potrei distinguere in pochi secondi uno juventino da un tifoso di altra squadra (o disinteressato al calcio). Leggendo sui social i miei compagni di tifo, e guardandomi intorno, sono arrivata alla conclusione che brucia ancora. Avete presente quando la sera prima si esagera con l’alcol e il mattino dopo ci si sente sotto un treno? Ecco. Ci sentiamo un po’ tutti così. E non basta la bustina d’Oki. Accendere la TV non aiuta, tutti continuano imperterriti a mostrare immagini su immagini di quella maledetta partita. Aprire Twitter, Facebook, ti mostra tre scenari: juventini disperati, juventini rancorosi, tifosi di altre squadre che escono dalle gabbie in questi rari momenti di sterile gioia. Il telefono poi, rischia di diventare strumento di istigazione alla violenza: chi non ha il parente simpaticone (di solito interista), che manda foto di dubbio gusto per sfotterti? Come non farsi disconoscere dall’intero albero genealogico evitando di mandarlo cordialmente a quel paese?!
“Eppure non è difficile comprendere che non è il momento giusto per infastidirmi”, penso. Ma la realtà dei fatti, fratelli juventini, è che gli altri non potranno mai capire. Non potranno mai capire quello che proviamo noi, e non per spicciola retorica del tifo. Non ho mai avuto la presunzione di pensare che solo io tifi in modo viscerale. Tutte le squadre (o quasi) hanno tifosi che sentono quei colori scorrere nelle vene. Tutti i tifosi (o quasi) gioiscono e si disperano per una partita di calcio. Perché è passione, e in quanto tale non conosce differenze. Quello che gli altri non potranno mai capire è quanto sia pesante per uno juventino una sconfitta. C’è chi ci racconta che la trasversalità della provenienza del tifo juventino sia frutto di una scelta di convenienza: tifo Juve perché vince. Noi sappiamo che non è così, sappiamo che non è una scelta dettata dalla pura volontà di essere sempre dalla parte del più forte. È un atto di fede, che esula dal resto. Ma non nascondiamoci dietro a un dito, noi juventini siamo abituati bene. Siamo abituati a vincere, a vedere la nostra squadra dominare, a sentirci sempre quelli più forti, più bravi, più adeguati, il cui destino dipende solo da loro stessi.
Siamo abituati bene, e la sconfitta rimane indigesta. Ma possiamo ridurre solo a questo la sensazione di ingiustizia e amarezza che avvertiamo oggi? Ovviamente no. Non è solo la sconfitta a fare male. Non fraintendiamoci, l’essere juventini non significa necessariamente fare capricci quando non si ottiene ciò che si vuole. Oddio, esistono anche questi casi, ma oggi non mi va di parlare di loro. La verità è che in Europa non è lo stesso. Se in Campionato siamo abituati al senso di superiorità costante, che ci porta a pensare che tutto sia nelle nostre mani, in Europa non è mai stato così. La Champions League è una competizione imprevedibile, dove la legge del più forte non è sempre quella vincente. Se in Campionato sappiamo che, col tempo, i valori prendono il sopravvento sul caso, in Europa è tutto più casuale, gli episodi, la fortuna, fanno la differenza. In Europa pochi possono permettersi di avere la presunzione di pensare di essere più forti. Noi, dal canto nostro, data la poca affinità con questa Coppa, raramente abbiamo provato questa sensazione. Siamo sempre stati consapevoli che qualsiasi partita sarebbe stata una battaglia più dura del previsto. Anche il piccolo Monaco appariva ostico. Il passato insegna, e noi abbiamo imparato a mettere le mani avanti per non scottarci.
Per questo, prima dell’ottavo di finale in questione, affrontare il Bayern Monaco sembrava paragonabile a scalare l’Everest a mani nude. Quasi impossibile, con piccolo spiraglio di speranza lasciato nelle mani della fortuna, della mentalità, della convinzione, del gruppo più forte del singolo. Poi la Juventus scende in campo e capisci che forse hai sbagliato la valutazione. Senti che non serve solo la fortuna, la mentalità. Senti che questa squadra ha la QUALITÀ per far male al Bayern Monaco. Se all’andata il tutto sembrava frutto di una reazione d’orgoglio, la partita di ritorno è la conferma: alla Juventus non manca nulla. E qui comincia a far male. Fa male quando avverti, anche in Europa, quelle sensazioni che di solito provi in Campionato: questa squadra può far male a chiunque. Questa squadra non è seconda a nessuno. E continua a far male, anzi, brucia ancor di più, perché a noi di questi attestati di stima interessa poco o nulla.
Con buona pace di Sacchi o chi per lui, “Vincere è l’unica cosa che conta” è davvero il nostro motto. E non abbiamo vinto, non abbiamo ottenuto la qualificazione. Quindi no, gli altri non possono capire quella che è adesso la nostra amarezza. Perché con buona pace degli amanti del bel calcio, del manierismo, dell’estetica che vince sul risultato, essere stati belli non è servito a nulla. Certo, ci ha resi orgogliosi. Ma non è servito lo stesso. Gli altri non possono capire quello che noi proviamo ora perché non sanno cosa significhi non accontentarsi. A noi, alla Juventus, di uscire a testa alta non interessa. Anche perché noi camminiamo sempre a testa alta. Non abbiamo bisogno di essere belli per essere spavaldi. Abbiamo la storia che ci tiene con la schiena dritta (anche se siamo gobbi). Gli altri non possono capire perché agli altri va bene nascondersi dietro elogi fasulli, dietro finti premi morali. Gli altri non possono capire perché accettano gli alibi. Noi no. Non esistono arbitri, assenze, infortuni, calamità naturali. Non esiste niente che possa lenire la ferita ancora aperta del non aver ottenuto ciò che avremmo meritato. E sì, siamo viziati, ma quando siamo più forti siamo abituati a vincere.
C’è solo una cosa che riesce a farmi vedere la luce in fondo al tunnel: se io provo rabbia, chi è sceso in campo probabilmente ha il sangue che ribolle. C’è solo una cosa a lenire il dispiacere: siamo la Juventus, abbiamo il dovere di vincere ancora. Perché Fare o non Fare, non c’è provare. Nell’attesa di sollevare altri trofei, non stupitevi se intorno a voi molti vi guardano dubbiosi. Loro non capiscono, non capiranno mai.
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