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Diritti tv (spiegati bene)

A quanto pare, è in arrivo l’ennesima riforma dei criteri di “distribuzione” dei ricavi derivanti dalla vendita collettiva dei diritti televisivi da parte della Lega di Serie A.

(Visto che in molti, dopo la pubblicazione di questo pezzo, mi hanno chiesto chiarimenti in privato, qui potete trovare TUTTO sui criteri distribuzione dei diritti TV in Europa ndr)

Non ho sottolineato “distribuzione” per caso: questa nuova riforma, come tutte le precedenti, non si preoccupa di intervenire per “incrementare” quella risorsa, bensì solo di come “distribuire” qualcosa che, ad oggi, non si sa neanche bene come si sia creata.

Ora, il concetto di “redistribuzione” è molto pericoloso e scomodo da maneggiare: redistribuire in sostanza vuol dire sottrarre ricchezza a chi l’ha prodotta per darla a qualcun altro. Per farlo, serve una giustificazione forte, una convenienza comune al vedersi sottratte queste risorse, altrimenti sembra a tutti gli effetti un’espropriazione indebita.
Nel nostro caso, la ratio giustificatrice è questa (17 aprile 2013, Segnalazione ai sensi dell’articolo 21 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 in merito alle disposizioni previste dal Decreto Legislativo 9 gennaio 2008, n. 9, recante “Disciplina della titolarità e della commercializzazione dei diritti audiovisivi sportivi e relativa ripartizione delle risorse”):

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Poi basta aggiungere: grazie ad un criterio di ripartizione più egualitario, la Premier League risulta un prodotto più attrattivo rispetto alla Serie A e pertanto riesce a generare diritti TV maggiori di quelli italiani (2,2 mld € contro 837 ml €).

In buona sostanza, è vero che io tolgo a te, ricco, dei danari per darli ai poveri, ma lo faccio per il tuo bene, perché poi ne avrai indietro di più. Messa così, suona molto meno credibile…

La frase di prima andrebbe un attimino rigirata, riportando al loro posto la causa e l’effetto: la Premier League è un prodotto più attrattivo rispetto alla Serie A, viene venduto ad un prezzo superiore e pertanto può permettersi criteri di distribuzione più egualitari.

Perché è un prodotto più attrattivo? Perché gli stadi sono pieni e i campi verdi; perché non ci sono bombe carta, morti, feriti, agguati, aggressioni ai pullman, insulti e sputi ai dirigenti in tribuna; perché il campionato viene “promozionato” in modo adeguato su tutti i mercati internazionali; non ci sono scandali e se ci sono vengono gestiti in sordina; le partite si giocano alle date ed agli orari prefissati e programmati, nonostante a quelle latitudini il tempo sia molto più inclemente che nella pianura padana; viene trasmessa solo la creme della Premier, non tutte le partite, lasciando intendere che “quello che non vedete è uguale a quello che vedete” (anche se Carpi-Verona ce l’hanno pure loro); c’è maggior trasparenza a tutti i livelli; scelgono con cura “a chi” cedere le “franchigie” (niente Manenti a casa loro); le regole sono chiare e vengono fatte rispettare (niente cambiamento in corsa delle regole sugli extra comunitari per favorire la Roma nello scontro diretto, ad esempio); niente gaffes su lesbiche, gay, mangiabanane, negri, ebrei e chi più ne ha più ne metta, e se ci sono vengono punite duramente; niente tweet idioti sui social e niente accuse di faziosità agli arbitri, perché partono squalifiche e querele: in buona sostanza, si curano tutti gli aspetti che hanno a che fare con la promozione e la valorizzazione del prodotto Premier League.
Regole chiare, una buona immagine, la tutela del prodotto da parte degli attori protagonisti hanno avuto il non trascurabile effetto collaterale di attrarre più facilmente gli investitori internazionali, i quali sono spesso “colored”, vengono dal paese dei mangiabanane ed hanno il vizio di volerci mettere tanti soldi, a patto che nessuno tenti di fregarli a campionato in corso (o addirittura a campionato finito, solo perché un indigeno ha speso 1,3 miliardi di patrimonio personale ed in qualche modo deve rientrare).
Parliamoci chiaro: stante il confronto impietoso tra la Serie A e gli altri campionati, perché un ricco straniero oggi dovrebbe preferire l’Italia alla Premier?
E infatti…

Poi c’è il trascurato problema dei bacini d’utenza. Un’inezia… Ad esempio, gli abbonati alle pay tv inglesi sono più del doppio di quelli italiani e pagano mediamente di più: potrebbe avere qualcosa a che fare col fatto che il reddito pro capite inglese è circa 1,5 volte quello italiano, e quindi c’è più margine per le spese voluttuarie? Moltiplicate per 2,5 volte gli abbonati italiani, aumentate il costo dell’abbonamento e vedrete che non siamo lontani dai valori della Premier.
Che dite? Così l’abbonamento in Italia non lo fa più nessuno? Ahhh, dite che sono due realtà diverse, che non sono confrontabili? Ma davvero? Non l’avrei mai detto.
Ma che c’entra il bacino d’utenza locale con la vendita dei diritti all’estero, direte voi? Perché loro incassano miliardi mentre qui un paio di centinaia di milioni all’anno?
Pur tralasciando le interessenze tra advisor-Lega-pay tv (…), ad esempio avrete notato quali sono le partite che vanno in onda negli orari ideali per la visione in Asia… Non frega niente a noi di Frosinone-Palermo ed Empoli-Fiorentina, mi spiegate come cavolo potrebbero suscitare interesse in un cinese o in un coreano?!? E soprattutto, è dal 2006 che sbandieriamo ai quattro venti che la serie A è tarocca: mi spiegate perché mai uno straniero dovrebbe aver voglia di assistere ad una scadente gara di wrestling, con mediocri e sconosciuti attori?
Lo so che in tanti cominciano ad agitarsi irrequieti sulla sedia quando nomino calciopoli, ma sarebbe ora di prendere coscienza del fatto che l’essersi accaniti contro la Juve ha avuto come “effetto collaterale” la semi distruzione di tutto il sistema calcio Italia. Ammesso di riuscirci, ci vorranno anni a ripulire l’immagine del nostro movimento all’estero.

La cura del “prodotto Premier League” da parte di manager competenti, che si dedicano solo a quello (!) e ne valorizzano al meglio tutte le peculiarità, ha reso quel campionato più appetibile degli altri; questo fatto ha attirato investitori e capitali esteri e la conseguenza è che oggi quel campionato è maggiormente competitivo.

Causa, effetto.

Ma di tutto questo è più comodo non prenderne atto: meglio convincersi che sia perché la Premier è un campionato più equilibrato.

Ora. La Premier è un campionato più “competitivo” della Serie A. Ma ha davvero visto una varietà di vincitori, tale da suffragare la convinzione di una maggiore “incertezza in merito al risultato sportivo”?

La Premier ha visto la luce nella stagione 1992-93: in 12 stagioni, 8 scudetti allo United e 3 all’Arsenal. Roba che il duopolio Juve-Milan era una sciocchezza. Poi è arrivato Abramovich: in 7 stagioni, 3 scudetti al Chelsea e 4 allo United. Quindi è stata la volta di Mansour al City: 2 City, 1 United, 1 Chelsea. Vincono sempre le stesse: quelle più ricche. Ossia, sono i soldi investiti da questi magnati che hanno reso competitive queste squadre, non viceversa.
Insomma, sarebbe bastato che al posto di Pallotta e Thohir fossero arrivati “quelli coi soldi veri” e la Serie A sarebbe stata “incerta” come la Premier League.

Questo avrebbe fatto della Serie A il clone della Premier League?

Avrebbe forse dato uno stadio a Milan e Inter? Infuso maggiore competenza ai manager della Lega? Avrebbe risolto gli annosi conflitti di interesse? Certi stadi sarebbe meno fatiscenti e certi campi di provincia meno spelacchiati, la gestione più trasparente, le regole più chiare e meno mutevoli? Ecco, ri-chiediamoci quindi “perché” questi magnati abbiano scelto di andare ad investire altrove.
Ora, se vogliamo d’imperio togliere risorse alle big per darle al Chievo, affinché il Chievo possa vincere lo scudetto “coi soldi degli altri”, bene, ma vediamo di non spacciarlo come “eticamente corretto”, perché la mia etica ed il mio concetto di meritocrazia si basano su qualcosa di molto diverso.

Messi un po’ di doverosi puntini sulle “i”, veniamo ora ai “nuovi” criteri di “distribuzione”.

50% in parti uguali (dal 40% precedente). E va bene, tutti partecipano, tutti hanno diritto alla loro parte. Però, di converso, tutti quelli che partecipano DEVONO garantire lo stesso standard qualitativo, per giustificare il fatto che si appropriano di risorse non da loro prodotte. Niente campi spelacchiati, stadi fatiscenti, partite rinviate “per sole”, violenza fuori e dentro lo stadio, limitazioni all’accesso dei tifosi, squadre che sbragano perché a metà campionato hanno già raggiunto i loro obiettivi… Se puoi garantire queste cose (che poi sarebbero il minimo!!!!!), bene, altrimenti avanti un altro.

X% secondo la popolazione del comune di residenza (in precedenza per il 30% erano i “sostenitori”, ma sarebbero “di difficile rilevazione”). Ora, mi spiegate che attinenza può avere la popolazione del comune di residenza con i diritti televisivi?!? Al massimo può essere un criterio per decidere dove implementare uno stadio, ma i diritti tv? Dai, è chiaramente una marchetta a favore di Roma e Milano, a discapito di altre città meno popolose, tipo Torino.
L’idea è talmente idiota che la soluzione è subito pronta: basta trasferire la sede legale, che può essere anche una semplice casella postale (!), nella città più popolosa, lasciando tutta la parte amministrativa ed operativa dov’è già adesso: non varrebbe la pena farlo per alcuni milioni di euro in più?

Il restante X% secondo il piazzamento in campionato, in base a criteri da definirsi. Ad oggi, come “merito sportivo” si considerano i piazzamenti fino dalla stagione 1946/47… Fate scorrere l’albo d’oro, guardate chi ha avuto piazzamenti degni di nota in quegli anni e non li ha più avuti dopo e scoprirete “per chi” è stata inserita questa norma. Vediamo se e come la modificheranno.

Ora. Il concetto è che si cerca di generare “equità” attraverso criteri arbitrari, così il risultato finisce per assomigliare tanto alla suddetta espropriazione indebita.

Ma come funziona all’estero? Tralasciando il criterio “in parti uguali”, che risponde all’ovvio concetto del “partecipi anche tu come gli altri” (fatto salvo quanto detto sopra sugli standard), tutti i restanti criteri sono ampiamente condivisibili e condivisi.
Ad esempio, nella tanto mal citata Premier League, la quota variabile dei diritti TV è suddivisa secondo i passaggi televisivi, che a loro volta sono programmati basandosi su cose tipo lo share e gli spettatori.

Cattura

Magari teniamo conto che la Serie A è questa cosa qua, e per equità cerchiamo di mantenere, visto che parliamo di diritti TV (!), la proporzione che c’è tra Fiorentina-Juventus e Atalanta-Chievo.

Questa situazione di estremo squilibrio nell’appetibilità televisiva delle partite è uguale alla Premier? Io dico di no, soprattutto perché in Premier passano in tv solo poche partite e spesso sono quelle più attese, che promettono più spettacolo. Ma torniamo al discorso di prima, della valorizzazione del prodotto.

E i meriti sportivi? In Bundesliga tutta la cifra viene ripartita secondo il criterio del “piazzamento sportivo”: la quota di diritti tv domestici secondo il piazzamento nella classifica nazionale, mentre la quota internazionale secondo un mix legato ai piazzamenti nei primi posti e ai risultati internazionali, ossia secondo il contributo effettivamente dato da ciascuna squadra alla creazione del coefficiente UEFA nazionale.

Come si vede, criteri coerenti e condivisibili; ma l’applicazione di criteri assolutamente meritocratici non ha impedito al Bayern Monaco di esercitare un predominio “peggiore” di quello della Juve.

In mezzo a tutto questo si continua a rimuovere dai pensieri il fatto che l’Italia ha una peculiarità che Germania e Inghilterra non hanno: ossia il fatto che una grandissima percentuale di tifosi di calcio fa il tifo per una ristrettissima cerchia di squadre, per non dire di una sola in particolare. In questo, siamo molto più simili alla Spagna che all’Inghilterra. E non è un caso che il sistema di ripartizione spagnolo sia molto simile al nostro.

Detto questo, i nuovi criteri di ripartizione come impatterebbero sulla Juventus? Da stime trovate in rete, si valuta circa 10 mln in meno da questa voce di ricavo: in pratica, lo stipendio lordo di un top player in meno.
Avrà effetto sulle gerarchie domestiche? Beh, vista la mole di infortuni avuta in questa stagione, la prova sul campo di “un top player in meno” l’abbiamo già vissuta, e non mi pare sia cambiato nulla. Inoltre, il problema si presenterà molto simile per tutte le squadre di vertice (Milan, Inter, Roma, Napoli etc) e sono altri i bilanci in cui 7-8 ml in meno faranno più danni.
Un top player in meno invece farà tanta differenza a livello internazionale, soprattutto perché il giocatore che la Juve non avrà in rosa, verosimilmente se lo troverà di fronte come avversario. Moltiplicate questo per tutte le italiane partecipanti alle competizioni internazionali e vedrete dov’è il danno potenziale.

Tutto questo per ottenere cosa, in cambio? Niente, se non il fatto che gente come Zamparini, Preziosi, Lotito, Ferrero e compagnia cantanti avrà qualche soldino in più da mettersi in tasca, per farsi gli affaracci loro.

L’incapacità di cogliere la sostanza che la competizione oggi non è più tra squadre dello stesso Paese, ma tra Sistemi-Paese diversi, che sgomitano per accaparrarsi quote di mercati internazionali (non solo per i diritti tv: guardate la situazione sponsor se non mi credete), farà molti più danni di una ripartizione basata su criteri insulsi.
Ah, tra parentesi, cosa c’è di complicato nello stimare i tifosi di una squadra di calcio? Basta commissionare un’indagine demoscopica telefonica in cui si pongono domande complesse tipo: “Lei segue il calcio? Per chi fa il tifo?” ed in breve abbiamo una stima attendibile di come è ripartito il tifo in Italia.

Perché a me pare che mentre ci perdiamo nel tentativo di scimmiottare il campionato inglese, adottiamo norme che ci porteranno ad assomigliare a quello portoghese…

Eppure, la Premier avrebbe un sacco di cose da insegnarci… “La Premier League nacque il 27 maggio 1992, dopo che le 22 squadre della vecchia First Division (massima serie inglese dal 1888 al 1992) si dimisero in blocco dalla Football League. Alla base dello scisma ci fu la volontà, da parte dei maggiori club inglesi, di poter contrattare singolarmente i propri diritti televisivi e le relative sponsorizzazioni, senza doverlo fare in blocco attraverso la Football Association (FA) e la Football League” (Wikipedia).

Ma il problema, a volte, non è nel maestro, ma nell’allievo.

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