Musica e pallone, in fondo, sono entrambe forme d’arte. I concerti più belli si tengono negli stadi (personalmente U2, stadio Flaminio, 27 maggio 1987, il mio concerto “top”); alcuni dei cori più belli si cantano durante le partite (tranne la Sud dello Stadium, ma quella è un’altra storia).
La maggior parte dei cori sono dedicati dalle tifoserie alle squadre; a me è sempre piaciuto l’inno della Lazio, “Vola Lazio vola” (Lazio, sul prato verde vola, Lazio, tu non sarai mai sola), mentre quello della Juve di Paolo Belli non è che mi faccia impazzire (l’ho cantato il giorno del mio matrimonio, però).
Altre canzoni parlano di calciatori, come “Diego Armando Maradona” di Francesco Baccini, “Gaetano e Giacinto” degli Stadio, “La coscienza di Zeman” di Antonello Venditti, “Mio fratello è figlio unico” di Rino Gaetano, “Barbera e Champagne” di Giorgio Gaber, “Marmellata #25” di Cesare Cremonini.
Ma la canzone per antonomasia sui calciatori è sicuramente “Una vita da mediano” di Luciano Ligabue, dedicata a Lele Oriali e a tutti gli onesti faticatori di centrocampo. Come Oriali, Marini, Colombo, Gattuso. Tutti quelli che corrono e faticano anche per gli altri.
Anche la Juventus ne ha avuti parecchi, di mediani forti, e forse uno dei più forti è stato anche quello che, inspiegabilmente, è stato ignorato dalla nazionale italiana.
Parlo di Furino (non di Bonini, non vale, è sanmarinese). Qui parliamo di Storia, quella con la s maiuscola, del calcio italiano. Furia, 528 presenze in 15 stagioni da titolare in bianconero, con 8 scudetti, 2 Coppe Italia, 1 Coppa UEFA e 1 Coppa delle Coppe; convocazioni in nazionale, 3 (una di quelle durante la spedizione mondiale nel ’70).
Era uno dei “capitani” di quella squadra, che sull’asse portante Zoff-Scirea-Furino costruì un periodo di successi a mio parere superiore all’attuale. E così come Bonini aveva a suo tempo preso il posto di Furino, quando, nel’88, il sanmarinese andò a terminare la carriera vicino casa, a Bologna, ci si pose il problema di chi avrebbe potuto sostituirlo.
Si era in un periodo complicato, era necessario un ricambio generazionale e Boniperti lo affidò a Zoff, che nel frattempo era diventato allenatore, con al suo fianco Gaetano Scirea in veste di secondo. E quell’estate il mediano arrivò. Mediano, però, solo grazie all’intuizione di Osvaldo Bagnoli, che gli aveva cambiato ruolo.
Roberto Galia, nato a Trapani il 16 marzo del ’63, crebbe nelle giovanili del Como e con la squadra “maggiore” esordì in serie A nel 1981. Giocava terzino sinistro, e proprio un suo gol contro il Bologna determinò il 2-1 finale che regalò la salvezza ai comaschi. L’anno dopo i lariani non si confermarono e scesero in B, disputando poi una bella stagione l’anno successivo, e perdendo la promozione solo agli spareggi.
Galia però piaceva in serie A, e venne acquistato dalla Sampdoria. Nei tre anni ai blucerchiati diventò titolare inamovibile e nell’86 passò al Verona, squadra dove il Mister gli cambiò ruolo, posizionandolo davanti alla difesa. Nell’88 il management juventino lo individuò come futuro “Bonini”.
Il “popolo” juventino non fu contentissimo, anche io avevo i miei dubbi, perché Galia era sì un buon mediano, ma niente di trascendentale. Ma ci dovemmo ricredere.

Figura 1- Roberto Galia in bianconero
“Devo ringraziare Zoff e Maifredi, cioè i tecnici che mi hanno dato coraggio a dispetto del giudizio generale. E aver convinto gli scettici è stata la mia vittoria più importante”
affermò una volta Galia.
Il fatto di essere un centrocampista difensivo di quantità, poco propenso agli inserimenti, non vuol dire necessariamente essere uno scarpone.
“È un giocatore ideale – spiegava Trapattoni – perché con lui si va sul sicuro. Lavora con grande applicazione e altissimo senso professionale, non si fa mai trovare impreparato, è un titolare a tutti gli effetti anche quando non gioca. Ho sempre detto che per conquistare gli scudetti serve gente così. Un allenatore ha bisogno di certezze, deve poter ottenere un rendimento medio garantito: il principale segreto del successo è la costanza. Certo, poi devono scattare altri meccanismi, servono i colpi risolutivi, ma senza la base ogni discorso è inutile. Pensando alla squadra come a una casa, direi che Galia è un pezzo delle fondamenta”.
Giocatore di sostanza, mai polemico, mai fuori posto, in campo e fuori, noi tifosi ci ricordiamo di Galia soprattutto per i gol di coppa.
Come quello realizzato allo stadio Giuseppe Meazza, il 25 aprile 1990. Galia segnò al 17′ la rete del decisivo 1-0 per la Juventus sul Milan, nel retour match della finale di Coppa Italia (0-0 all’andata): rimessa laterale, palla a Marocchi che provò a verticalizzare per Barros, irruppe Galia da dietro le spalle del piccolo portoghese e segnò.

Figura 2- Il gol al Milan
Oppure nella finale di andata della Coppa Uefa, contro la Fiorentina, quando segnò il gol del momentaneo 1-0, sempre con un inserimento, su un cross dal fondo di Totò Schillaci.
Roberto Galia fu titolare inamovibile per sei anni, sollevando la Coppa Italia del 1990 e per due volte la Coppa Uefa: la prima sempre nell’anno del Mondiale italiano (contro la Fiorentina), la seconda nel 1993 (Borussia Dortmund), e segnando pochi, ma importantissimi gol. Ormai trentunenne passò all’Ascoli, poi a Como, dove chiuse col calcio giocato.
“Mi conosco, so di non essere un fuoriclasse ma un giocatore prezioso forse sì. Ho cambiato diverse maglie, sono sempre andato d’accordo con i miei allenatori e sempre ho avuto la precisa sensazione di essere utile. Non è poco”
Con 225 presenze in bianconero, una in più di “Roi” Michel, undici reti e una sola espulsione, Galia è stato il prototipo di giocatore che ogni allenatore vorrebbe sempre in squadra. Aveva occhio, sapeva leggere bene la partita, e dava il 100% per tutti i novanta minuti.
Forse nessuno gli dedicherà mai una canzone o un inno, ma tutti i tifosi juventini sanno che i giocatori come Roberto Galia da Trapani sono quelli che permettono alle squadre di diventare grandi squadre. E di vincere.