

Il sole di marzo irruppe all’improvviso tra le nuvole grigie e spesse, quasi a voler dare voce all’antica filastrocca sull’imprevedibilità del mese che apre alla primavera.
Già, la primavera: orrenda stagione, in cui ogni forma di vita si risveglia dal torpore letargico producendo un numero assassino di agenti patogeni a infestare l’aria fin lì pura, fine, assente.
E che la primavera sia un periodo nefasto dell’anno lo confermano gli eventi che sto per raccontarvi.
Francesco era un ragazzo schietto, un po’ rude nei modi ma sincero nello spirito. Animato da una violenta forza di volontà, era difficile fermarlo davanti a un obiettivo che si era prefissato.
Lavorava nel grande mercato ortofrutticolo della città, ogni giorno spostava centinaia di cassette e scatole di generi alimentari: sveglia alle tre, rientro a casa non prima delle quattro del pomeriggio. Una esistenza dura che ne aveva temprato il carattere e nascosto le paure, dove nessuno poteva andare a cercarle, dentro una corazza da duro, uno di quelli a cui è meglio non rompere le scatole.
Il signor Avenatti sorseggiava il suo succo d’arancia in terrazzo, la chiostrina a vetri era costata un occhio della testa ma godersi il panorama della città al caldo tepore di quel primo sole primaverile era un piacere a cui aspirava da tempo.
Carriera ormai in rampa di lancio, cominciava ad assaporare il gusto di “essere arrivato” e di poter finalmente guardare a tutte le difficoltà incontrate prima di allora come il male necessario per essere, finalmente, il numero uno.
I colleghi, ormai, erano rassegnati a vederlo spiccare il volo verso il successo e la loro invidia accresceva il senso di onnipotenza che stava accumulando da un po’ di tempo; e quel terrazzo, quel sole, quel piacere mattutino, amplificavano gli effetti inebrianti di quella sensazione.
Francesco non aveva tempo per leggere i giornali o guardare la televisione, una volta a casa troppa era la voglia di evadere e sfruttare le poche ore di libertà per rinchiudersi tra quattro mura e farsi istupidire da programmi demenziali o dagli approfondimenti politici o dallo sport. Eppure aveva escogitato uno stratagemma, abbastanza pretenzioso a essere onesti, per tenersi aggiornato quanto bastasse a reggere il dibattito col verduraio che ogni mattina faceva sfoggio della propria cultura generale e competenza politica, economica, sociale. La personale rassegna stampa di Francesco avveniva durante le prime ore lavorative, quando doveva occuparsi di stendere i giornali sotto le cataste delle cassette di frutta affinché tenessero più pulito il pavimento sotto le derrate alimentari. In quei frangenti Francesco aveva sviluppato la capacità di leggere i titoli principali, guardare foto e didascalie, farsi un’opinione di massima e poi andare allo scontro dialettico con l’amico sapendo che, in realtà, anche l’avversario non fosse un Enrico Mentana come lasciava intendere. Certo, i giornali che gli davano per salvaguardare insalate, mele e ortaggi freschi non erano del giorno stesso ma aveva imparato a incanalare il dibattito verso le notizie di cui era al corrente.
Il signor Avenatti usciva dal portone del suo palazzo intorno alle otto e trenta, caffè al solito bar, tangenziale per l’ufficio e ingresso trionfale alle nove in punto dove ad attenderlo l’ossequiosa segretaria aveva già preparato una corposa risma di quotidiani a cui Avenatti dedicava molta della sua mattinata, a compiacersi degli elogi e imprecare contro chi osava criticarlo: “Camilla, ricordami di chiamare Laforgia, c’è questo simpaticone del suo redattore che non capisce un cazzo e scrive come se fosse il depositario della verità. Gliela faccio passare io, una bella serata!”
“Sì, signor Avenatti, cerco subito il numero.”
La segretaria era ormai assuefatta all’arroganza del superiore ma ogni volta che le chiedeva una telefonata per protestare contro un giornalista un brivido di rabbia le procurava un movimento involontario delle pupille verso l’alto. Quei pochi, impercettibili secondi, erano l’unico moto di protesta verso il tiranno.
Francesco ritirò in tutta fretta dall’agenzia di distribuzione della stampa il solito carico di giornali invenduti che lui avrebbe utilizzato al duplice scopo di informarsi e preparare il giaciglio ai kiwi appena arrivati dalla Cina. Quella mattina era in notevole ritardo e scoprì che la domenica precedente doveva essere successo qualcosa di grosso a un distinto signore la cui faccia campeggiava su tutte le prime pagine dei quotidiani e ognuna di esse aveva i caratteri cubitali che infangavano il nome del malcapitato: “Barbarie”, “Vergogna senza fine”, “Stupro al regolamento”, “Non se ne può più”, “Basta!” e via dicendo; era tutto un florilegio di improperi verso questo signore sulla quarantina, capelli all’indietro, abbronzato innaturalmente e che, ironia delle foto d’archivio, sorrideva su quasi tutti i quotidiani.
Il signor Avenatti sorseggiava un cappuccino nel suo studio mentre l’interfono sulla scrivania continuava a lanciare segnali luminosi ininterrottamente, ma quella mattina non aveva nessuna intenzione di ricevere le chiamate che la povera Camilla cercava di passargli.
Nei giorni successivi, Francesco si rese conto che tutti gli inservienti del grande capannone non parlavano d’altro, dello scandalo, o quello che lui percepiva tale dalla “lettura” dei quotidiani, che vedeva coinvolto il faccione abbronzato dell’altra mattina e capì di doversi mettere al passo prima che il verduraio lo mettesse alle strette per parlare della “vergogna” e della “barbarie”. Il grande mercato ortofrutticolo sembrava sospeso in un’unica grande intemerata contro questo misterioso uomo impomatato che continuava a campeggiare sulle cronache nazionali. Francesco era un po’ scosso e turbato da quell’espressione sorridente abbinata alla gravità delle accuse.
Accuse che, però, non era ancora in grado di contestualizzare perché la mole di lavoro in quei giorni era troppa per approfondire il tema: continuava a leggere di “scandalo” e “arroganza del potere” e sempre foto dell’uomo a contorno di editoriali incandescenti vergati da direttori e capiredattori sull’orlo di una crisi di nervi.
Su una cosa era certo: questo a lui sconosciuto personaggio cominciava a stargli molto antipatico, non foss’altro che per le espressioni facciali, quando sorridente quando sicuro di sé, campeggianti sulle prime pagine mentre si parlava di lui come di un individuo pericoloso.
Un contrasto creato ad arte da chi impagina il giornale, ma questo Francesco lo ignorava del tutto.
Il signor Avenatti uscì finalmente dal suo rifugio intorno alle quattordici per andare a mettere qualcosa nello stomaco, visto che la mattina non era riuscito a fare colazione. Anzi, a dire il vero, erano diverse mattine che qualcosa lo turbava impedendo al suo stomaco di predisporsi al solito ricco primo pasto giornaliero a cui era abituato. Decise di prendere la sua auto dal box riservatogli dalla multinazionale a cui prestava servizio come avvocato e fece rombare i duecento cavalli su per la rampa di uscita.
Francesco tornava dalla tavola calda e stava dirigendosi verso il suo bar preferito per il caffé.
Il signor Avenatti era uscito dal centro città per evitare colleghi e conoscenti e, imboccato uno svincolo, era entrato nella zona del grande mercato ortofrutticolo, con la speranza di non essere riconosciuto e mangiare in santa pace.
Parcheggiato il vistoso macchinone alla meglio, entra in quello che gli è sembrato il meno peggio tra i locali dove poter consumare un pasto veloce.
Francesco è alla cassa, ha fretta di tornare al lavoro ma c’è il solito vecchietto a far ingrossare la fila perché impiega un’eternità a trovare il portafogli, finito in chissà quale tasca del cappotto.
Il signor Avenatti entra nel bar, si guarda intorno circospetto, avvista i tavolini e si dirige verso di essi.
Dalla fila Francesco vede entrare un avventore mai visto prima, vestito firmato, giacca e cravatta, “uno che ha sbagliato strada” pensa lui. Eppure Francesco lo guarda e ha come la sensazione che quel volto non sia del tutto sconosciuto, anzi.
Ci impiega un attimo a rendersi conto che si tratta della faccia odiosa vista in quei giorni sui giornali! Era proprio il signore la cui reputazione era ai livelli del peggior politico in circolazione.
Francesco è sbigottito, non riesce a distogliere lo sguardo da lui mentre se lo vede avvicinare.
Il signor Avenatti ha una brutta sensazione, dalla fila alla cassa c’è qualcuno che lo fissa odiosamente: “Cazzo guarda, questo?”
Fa finta di ignorarlo e va a sedersi al primo tavolo libero ma, una volta appoggiato il cappotto sulla sedia accanto, si rende conto che il ragazzone nella fila lo sta ancora osservando; non solo, sembra quasi di scorgere un giudizio di odio negli occhi di quell’individuo. Avenatti non è il tipo da temere uno sguardo né il tipo di persona che passa oltre a lungo: nella sua carriera ne ha visti a decine di bamboccioni impertinenti che pensavano di intimorirlo corrucciando la fronte:
“CHE CAZZO HAI DA GUARDARE?!?”
Il gelo scende tra gli avventori.
A Francesco non sembrava vero, il tipo dei giornali ce l’aveva con lui. In pochi istanti si fece paonazzo, quella faccia tosta invece di andare a nascondersi viene nel suo bar e ha pure il coraggio di insultarlo in quel modo!
Francesco ha con sé il coltello d’ordinanza, un modello che non fanno più, quello con la seghettatura seria dei coltelli di una volta, non le lame lisce che fanno ora e che non tagliano nemmeno un petto di pollo. Lo porta sempre con se proprio perché, tra gli addetti ai lavori, è una specie di oggetto di culto, una rarità e quindi guai a lasciarlo incustodito.
Il signor Avenatti scopre purtroppo che il ragazzo apostrofato non è uno di quelli che obbediscono subito alla sua autorità, anzi, sembra dirigersi verso di lui con fare minaccioso, ma fa finta di niente e prende il menu dal tavolo.
Francesco è ormai a ridosso dell’uomo e gli intima di alzarsi: “Ce l’hai con me?”
“Non eri tu che mi fissavi? Che c’è, hai talmente tanto tempo da perdere che lo passi a guardar la gente? Ma vatti a cercare un lavoro, fancazzista!” Il signor Avenatti scarica la rabbia accumulata in quei giorni contro il primo sconosciuto che gli capita a tiro.
Solo che ha scelto lo sconosciuto peggiore.
Francesco non crede alle sue orecchie, questo è davvero uno che merita una lezione e, mentre il suo cervello sta pensando la parola “lezione”, la mano è più lesta e ha già impugnato il coltello.
Il signor Avenatti ha pochi momenti per rendersi conto che quel ragazzo, col braccio sinistro, lo ha preso per il bavero della giacca, sollevandolo quasi di peso, e con l’altro arto ha fatto un movimento rapidissimo verso la sua gamba. Solo la dolorosissima fitta al gluteo lo renderà consapevole di essere stato ferito con un’arma da taglio, ma non fa in tempo a guardare il delinquente che questi lo ha sbattuto sul tavolo per sparire immediatamente dalla sua vista.
Il giorno successivo, i titoli sui giornali sono i seguenti: “Aggredito l’arbitro Avenatti”
“Accoltellato il numero uno dei fischietti italiani”
“Follia ultras: stavano ammazzando Avenatti”
L’editorialista di punta del giornale italiano più prestigioso inizia così il suo sermone: “Ancora una volta siamo qui a stupirci di come il gioco più bello del mondo diventi scenario di avvenimenti che spetterebbe narrare ai cronisti di guerra…
(omissis)
…Ora basta, intervengano le autorità.”
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