

“De mortius nihil nisi bonum”, dicevano i latini. Che, letteralmente vuol dire: “dei morti niente si dica se non il bene”.
In realtà la frase era greca (τὸν τεθνηκóτα μὴ κακολογεῖν, tòn tethnekóta mè kakologeîn, cioè “non parlare male dei morti”) e va interpretata nel senso che la pietra tombale chiude tutte le polemiche e le dicerie nei confronti della persona morta.
Un segno di rispetto ma soprattutto di “pietās” tanto cara ai latini, e che non si deve confondere con l’odierna “pietà”, che ha un altro significato.
Per i latini “pietās” era amore, compassione e rispetto per il prossimo.
Nel 1987 ho avuto la fortuna di essere a Napoli (abitavo in provincia, ma stavo frequentando la Scuola Militare Nunziatella) e faccio fatica a descrivere a parole quello che vidi.
I colori, i suoni, la gente. Un popolo impazzito di gioia.
Il 10 maggio 1987, infatti, il Napoli di Maradona vinceva il primo scudetto della sua storia.
Dico “di Maradona” perché era soprattutto lui il faro della squadra; basta leggere la formazione tipo e si capisce che assieme a lui, e a un paio di giocatori forti (Careca, Giordano e Bagni su tutti), gli altri erano onesti comprimari che lavoravano per il bene comune.
I tifosi del Napoli identificano il loro “ciclo” nel lasso di tempo dal 1984 al 1991: per loro, quello era l’indimenticabile Napoli di Maradona.
In quegli anni il Napoli raccolse “solo” due scudetti, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana e una Coppa Uefa. Trofei che Maradona vinse praticamente da solo.
Io personalmente lo ringrazio per quanto mi ha fatto vedere sul campo (ai tempi non c’era YouTube). Parafrasando una canzoncina, posso dire “ho visto Maradona”.
Oltre quello del Napoli, abbiamo avuto altri cicli in Italia (domanda retorica)?
La Serie A, oltre alle strisce vincenti della Juventus del quinquennio 1930-35 e del Grande Torino del 1945-49, è stata caratterizzata da diversi cicli:
- Inter 1960-68: Il “mago” Herrera fu protagonista per 8 anni, con 3 scudetti e Coppe dei Campioni consecutive (ma “cos’hai messo nel caffè”, cantava Riccardo Del Turco);
- Juventus 1976-86: Trapattoni raccolse in dieci anni 6 titoli nazionali, più una Coppa Uefa (1976-77), una Coppa Coppe (1983-84), una Coppa dei Campioni (1984-85), una Supercoppa Uefa (1984) e una Coppa Intercontinentale (1985);
- Napoli 1984-91: già detto;
- Milan 1987-91: la squadra di Sacchi, con più successi internazionali (2 Coppe dei Campioni, due Supercoppe europee e due Coppe Intercontinentali) che nazionali (uno scudetto e una Supercoppa italiana);
- Milan 1991-96: dopo il tecnico di Fusignano arrivò Capello che, con un gioco molto meno “spettacolare”, dominò in Italia con 4 scudetti e 3 Supercoppe italiane, con una Champions e una Supercoppa Europea di contorno;
- Juventus 1994-98 e 2001-04: Marcello Lippi, sommando i due periodi, dominò il decennio con 5 scudetti, 4 Supercoppe italiane e, fuori dai confini, 1 Champions League, una Supercoppa Europea e una Coppa Intercontinentale (e varie finali perse, come da tradizione bianconera);
- Inter 2005-10: il quinquennio buio del calcio italiano, con i 3 scudetti consecutivi di Mancini (di cui uno di cartone) e i 2 di Mourinho;
- Juventus 2011-20: 9 scudetti consecutivi, più 4 Coppe Italia e 4 Supercoppe italiane.
Il ciclo della Juventus sembra arrivato alla fine, ma è stata una cosa fisiologica (tutti i cicli iniziano e prima o poi finiscono), o un “seppuku”, meglio conosciuto come “harakiri”?
Più volte ho raccontato di come la Juventus nel 2005 fosse, a livello economico, a un passo dalla vetta in Europa.
La Deloitte Football Money League è una classifica di club calcistici ordinata in base ai ricavi operativi (al netto di eventuali plusvalenze) dell’ultima stagione sportiva conclusa.
Viene stilata annualmente dall’azienda di servizi di consulenza e revisione statunitense, la Deloitte Touche Tohmatsu, e pubblicata ogni anno verso l’inizio di febbraio.
Questa era la situazione nel 2005:
La Juve era in forte crescita e l’operazione stadio di proprietà era quasi in porto. La discontinuità del 2006 rallentò lo sviluppo.
Appena tre anni dopo, grazie alle manovre che portarono la Juve fuori dai giochi nazionali (per quello parlo di anni bui), la situazione era la seguente:
Si vede chiaramente che le uniche squadre in perdita furono le italiane, perché quando elimini la più forte, non già rinforzandoti, ma eliminandola fisicamente, il risultato non è che sei più forte, ma che non c’è più nessuno che ti possa contrastare (a livello nazionale).
Questo è quello che è accaduto nel 2006.
Ora, dopo 14 anni, la situazione sembra stia migliorando; tranne la Juventus e la Lazio, le squadre storiche italiane (Milan, Roma e quelli là) hanno tutte proprietà straniere, che stanno investendo nel prodotto. Vediamo l’ultima Deloitte Football Money League:
Si notano le “nuove” PSG e City (proprietà arabe, con tutti gli escamotage del caso, come le auto-sponsorizzazioni per comprare calciatori), e la scomparsa delle italiane, ad eccezione della Juve.
La Juventus, appunto, tramite varie azioni societarie di livello, come l’acquisizione dell’area della Continassa, l’emissione del bond per ristrutturare e differire il debito, l’aumento delle sponsorizzazioni per migliorare il bilancio, l’aumento di capitale per migliorare la cassa, è in forte risalita (Covid permettendo, ma quello colpirà indistintamente tutti).
E dal punto di vista sportivo?
Io ritengo che, oltre ad Agnelli, la Juventus non abbia dei dirigenti all’altezza della situazione. Uno lo aveva, ma ha permesso che andasse alla concorrenza.
Dopo una serie di sette scudetti consecutivi la Juventus ha prima investito su uno degli attaccanti più forti di tutti i tempi, Cristiano Ronaldo, poi, l’anno dopo, su uno dei difensori top al mondo, Matthijs de Ligt.
Queste mosse hanno strozzato le capacità economiche della società, che si è trovata a compiere delle scelte di mercato alquanto discutibili (plusvalenze comprese, che però non fanno parte delle classifiche economiche in tabella).
Il vantaggio accumulato negli anni, nel 2019 è stato praticamente azzerato. La Juve ha vinto d’inerzia (e grazie a CR7, che segna quasi un gol a partita) il nono scudetto consecutivo, ma la sensazione è che sia finito un ciclo.
Ma è davvero la fine del ciclo, o è solo un periodo di appannamento (come l’inizio della stagione 2015-16, tanto per capirci)?
In casa, la Juventus ha battuto Samp e Cagliari, e il Napoli a tavolino, pareggiando con il Verona (e ci sta, è una squadra ostica per tutti).
Fuori casa, con Roma e Lazio, due pareggi (e ci può stare); con le neopromosse, due pareggi e una vittoria. Quattro punti persi.
Che, guardando la classifica, la porterebbero al secondo posto a soli due punti dal Milan. Quindi la situazione non è neanche così nera come la si sta dipingendo, ma guardando le partite della Juve ci si rende conto che non è così.
Due anni fa (primo anno di CR7), a dicembre, la Juve era prima con 17 vittorie e 2 pareggi. Le squadre scendevano in campo cercando di limitare i danni.
Da quel momento in poi non si è capito più nulla. Adesso anche la più scarsa delle squadre italiane sa che un gol ce lo potrà fare.
Sul web ho letto un interessante parallelo tra la Juve e il Bayern Monaco.
Ve lo riassumo.
Il Bayern, secondo l’autore, esattamente come la Juve, qualche anno fa si è trovato a dover decidere il proprio futuro.
Entrambe le squadre, molto forti in patria, non riuscivano a raggiungere le corazzate europee, quelle che hanno un “brand” internazionale ben definito, per intenderci, come Barcellona, Real, Manchester United e Liverpool.
Ma mentre il Bayern ha consolidato il proprio modo di operare, la Juve, sempre secondo l’autore dell’articolo, ha cercato di emulare le suddette “big”, e così facendo si è snaturata.
Il problema è che, investendo come ha fatto, senza averne la potenza di fuoco, la Juventus ha comprato dei “mezzi” top player (escluso Ronaldo), diventando di fatto un “mezzo” top club.
A questa ennesima “diagnosi” delle difficoltà bianconere io rispondo con due considerazioni.
In primis, il parallelo con il Bayern regge fino a un certo punto.
In Germania, non esiste un “antibayernismo” imperante, non esistono club che cercano di affossarli, o di “interrompere la continuità penalizzante” con formule più o meno ardite, playoff, algoritmi e puttanate varie.
In Germania, il Bayern è il club che rappresenta la Germania all’estero, e anche quando scoppiò lo scandalo Hoeness, nessuno imputò nulla al club, pur essendo riconosciuto colpevole il presidente della società.
Che, scontata la pena, è tornato a fare il presidente del Bayern.
I principali sponsor del Bayern sono la Deutsche Telekom, l’Allianz, la Adidas, l’Audi, la Siemens, la Lufthansa, la Coca-Cola e la Paulaner, e tranne la bevanda americana, sono tutti marchi tedeschi tra i primi nel mondo del proprio settore.
Sul calciomercato interno il Bayern ha sempre l’ultima parola (in che modo non è importante, in questo ragionamento). E compra a prezzi di saldo.
Possiamo dire insomma che il Bayern è come se fosse la nazionale tedesca dei club.
In Italia, che solitamente è un “tutti contro tutti”, nel calcio è un “tutti contro la Juve”.
Si dice che la Juve viene aiutata dagli arbitri; guardate un po’ cosa ho trovato durante il lockdown, la classifica dei rigori a favore degli ultimi dieci anni:
È stato un tutti contro la Juve nel 2006, quando si accusò la società di essere a capo di una cupola che cambiava gli esiti degli incontri.
Le sentenze sportive sancirono che non ci furono partite alterate. Ma che la Juventus aveva conseguito effettivi vantaggi di classifica, anche senza alterazione delle singole partite (COME, ALLORA?).
Tesi mai dimostrate, ma grazie a una quanto mai efficiente “giustizia” sportiva, Juve retrocessa in B ed esautorata di due titoli (di cui uno dei due neanche soggetto a indagine).
Eppure, l’allora Presidente della FIGC, Franco Carraro, intercettato, diceva : “se c’è un dubbio, per carità, che il dubbio non sia a favore della Juventus”.
Bel modo di creare una cupola…
È tutti contro la Juve in sede di calciomercato, per cui le squadre italiane gonfiano i prezzi se l’acquirente è il club bianconero (Chiesa più costoso di van de Beek è una bestemmia).
Sui social, all’annuncio di un nuovo sponsor della Juventus, i tifosi delle altre squadre si passano parola di non comprare più prodotti di quell’azienda (è successo con la pasta De Cecco e con il caffè Lavazza).
Andrea Agnelli, che è anche presidente dell’ECA (European Club Association), quando parla a nome di quell’associazione, riceve le più feroci critiche proprio dai suoi colleghi e dai giornalisti italiani.
Quando lo faceva Karl-Heinz Rummenigge, suo predecessore in quella carica, i giornali tedeschi e i suoi colleghi presidenti delle società di Bundesliga gli tributavano solo applausi (e diceva più o meno le stesse cose).
Non è una sindrome da accerchiamento, né quella dei tifosi, né quella di Agnelli (che infatti, alla domanda del perché la Juve fosse stata lasciata sola dalle istituzioni in un’inchiesta in cui era parte lesa, disse: “Noi ci sentiamo sempre soli”). È la realtà.
È il primo dei due motivi per cui il paragone Juve-Bayern Monaco regge fino a un certo punto.
La seconda considerazione è legata alla trasformazione della squadra negli ultimi due anni.
Posto quello che si è detto più e più volte, io non credo che Agnelli sia impazzito tutto d’un tratto.
Era sicuramente consapevole del rischio che si sarebbe assunto nello scegliere un allenatore giovane e inesperto e nel ringiovanire la rosa.
Tant’è vero che per Pirlo era previsto un percorso nell’Under 23, come disse il Presidente stesso in sede di presentazione.
Se la società ha deciso di cambiare l’allenatore, lo ha fatto in quanto lo ha ritenuto necessario. Non siamo noi, per fortuna, a dovergli insegnare il mestiere.
Che non vuol dire che non si possa criticare, o che non ci si possa incazzare per un pareggio (giocando solo un tempo, praticamente) con una neopromossa.
Vuol dire che questo anno potrebbe essere un anno di “zero tituli”. Esattamente come il 2010, il 2009, il 2008, e come tutti gli anni in cui non si è vinto alcun trofeo.
Ma potrebbe anche non essere così.
Purché qualcuno prenda per mano quei ragazzi, dal primo all’ultimo giocatore, e li porti a leggere quelle parole: “vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”. E gliele spieghi.
Boniperti, riprendendo una frase molto simile detta da un allenatore americano, sottolineò come per la Juventus non ci siano partite “decubertiane”, in cui conta la partecipazione ma non il risultato; esistono solo gare da affrontare con agonismo, determinazione, grinta, voglia di vincere e convinzione di potercela fare anche contro avversari più forti.
Forza Juventus, fino alla fine.
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