Finisce quindi, annunciata da uno scarno comunicato che rinvia però a una conferenza-stampa congiunta, l’avventura di Massimiliano Allegri alla guida della Juventus. Lasciamo volentieri ad altri, che lo svolgeranno con l’opportuna competenza e la dovuta imparzialità, il compito di tracciare un bilancio tecnico; noi turpi risultatisti ci limitiamo a segnare: 5 scudetti, 4 coppe Italia, 2 Supercoppe, due finali di Champions, un rapporto fra prestazioni europee da ricordare e da dimenticare perlomeno in pari, se non in attivo (cosa che non può vantare qualche illustre predecessore, pre e post-2006). Risultati che, come juventini, auguriamo beninteso al successore di migliorare, anzi, di polverizzare.
Qualche parola sull’uomo, rivelatosi una sorpresa, e che lascia – a chi li vorrà cogliere – degli insegnamenti (parolona della quale riderebbe per primo). Intanto, la sospensione del giudizio sul nuovo allenatore, chiunque sia, onde non ripetere l’orrendo e volgare sciocchezzaio cui Allegri fu sottoposto (anche da chi scrive) al suo arrivo. Ma soprattutto, di Max ci mancherà, anche nell’auspicato tripudio di future coppe, il sorriso beffardo dietro cui sta una visione del calcio, e della vita. In un paese di retori, di tromboni, di malati di maiuscole, in cui in tanti hanno nel cuore un Balcone (dell’uno e dell’altro colore), salvo magari deplorare il successo politico dei balconisti (quando non sono dei loro) e sorprendersene; in uno sport in cui, come disse Churchill “gli italiani perdono le partite come se fossero guerre e le guerre come se fossero partite”, un fatto tribale che invera il cliché dello “specchio del paese”; in questo mondo Allegri ha portato la brezza dell’ironia, del disincanto persino cinico, delle metafore ippiche, dei lampi di vernacolo; la soddisfazione di bucare con lo spillo il multicolore e apoplettico palloncino, di svelare che, come nei vecchi film di Ercole, il costoso e rutilante scenario è fatto di molta cartapesta. Una specie di marziano, come quello a Roma di Flaiano, e che come quello ha dapprima suscitato curiosità, poi simpatia, ma alla fine è stato mal digerito e rigettato, fino a diventare odioso ai gonfiatori del palloncino, agli scenografi cartapestari, ai nostalgici del balconi, a quelli sempre bisognosi di un Profeta, di un Culto, di un Dogma da seguire, fino al prossimo 25 luglio (no, non è la data del ritiro). Agli italiani, insomma.
Oggi, al chiassoso ma sparuto manipolo di fanatici che lo hanno sempre odiato si uniscono numerosi campioni del salto da e sul carro, la nostra disciplina olimpica par excellence. A loro rispondiamo con lo sberleffo, con il ghigno da gatto del Cheshire del mister, che continuerà ad aleggiare dopo di lui.
E lo salutiamo augurandogli buona fortuna purché, naturalmente, non migliore di quella che auguriamo alla Juve. Che resta e continua, com’è giusto, la sua storia. Nella quale troverà posto, da domani, e senza dar troppo nell’occhio, un corto muso.
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